Matteo Salvini (foto LaPresse)

Ora Salvini invoca il centralismo statale per le aree terremotate

Redazione

Il segretario della Lega boccia Errani e chiede Tronca per gestire la ricostruzione. E in un solo colpo rinnega anni di slogan sull'autogoverno territoriale.

Matteo Salvini non è convinto che l’ex governatore dell’Emilia Romagna, Vasco Errani, sia la persona adatta per sovrintendere alle operazioni di soccorso ai terremotati del centro Italia. Se questo è comprensibile, anche rammentando le critiche leghiste al modo in cui furono affrontate le conseguenze del sisma che colpì la zona del reggiano e del piacentino, suscita una certa sorpresa l’alternativa proposta da Salvini: il prefetto Francesco Paolo Tronca. La perplessità non riguarda la biografia di Tronca, un alto funzionario palermitano che è stato prefetto di Milano e commissario straordinario al Comune di Roma.

 

Il fatto è che la figura prefettizia è, per antonomasia, in contrasto con le tendenze all’autogoverno territoriale, in quanto rappresentante del centralismo statale. La polemica contro i prefetti, peraltro, non è stata sviluppata solo da movimenti autonomistici, ma anche da parte di personalità liberali o liberalsocialiste, da Gaetano Salvemini a Luigi Einaudi, che non erano affatto nemici dello Stato, ma che insistevano sull’esigenza di salvaguardare il carattere democratico del governo locale e combattevano le intromissioni centralistiche nelle vicende elettorali. Nel suo saggio ferocemente anti-giolittiano “Il ministro della malavita: notizie e documenti sulle elezioni giolittiane nell’Italia meridionale”, Salvemini indica proprio nelle prefetture lo strumento principale della manipolazione elettorale.

 

Luigi Einaudi, durante la resistenza, scrisse un saggio dal titolo chiarissimo “Via il prefetto!”, in cui, richiamate in modo singolarmente offensivo le origini napoleoniche (“il prefetto è una lue che fu inoculata nel corpo politico italiano da Napoleone”) e centralistiche dell’istituzione, lo statista piemontese sostiene in modo radicale che “democrazia e prefetto repugnano profondamente l’una all’altro”, e conclude che “perciò il delenda Carthago della democrazia liberale è : Via il prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze e le sue ramificazioni! Nulla deve più essere lasciato in piedi di questa macchina centralizzata; nemmeno lo stambugio del portiere. Se lasciamo sopravvivere il portiere, presto accanto a lui sorgerà una fungaia di baracche e di capanne che si trasformeranno nel vecchio aduggiante palazzo del governo. Il prefetto napoleonico se ne deve andare, con le radici, il tronco, i rami e le fronde”.

 

La battaglia di Einaudi non ebbe fortuna e alla fine, sulla sua scrivania di presidente della Repubblica, finirono i decreti di nomina dei prefetti che firmò personalmente. Naturalmente la storia è andata avanti e la funzione prefettizia si è perfezionata, assumendo caratteri più consoni a quelli di una democrazia moderna, ma è innegabile che essa conservi il suo carattere fondamentale di presenza del governo centrale sul territorio, che ora viene gestita quasi sempre con spirito di collaborazione, ma che continua a rappresentare un limite oggettivo al dispiegamento dell’autogoverno, soprattutto di quel tipo di autogoverno ispirato allo slogan leghista “padroni in casa nostra”. D’altra parte, ancora recentemente, Salvini ha invitato gli amministratori locali a non ottemperare alle norme sull’accoglienza degli immigrati, emanate dal governo e gestite dai prefetti.

 

La sua indicazione di un prefetto in contrapposizione con un ex amministratore regionale, eletto dal popolo e indotto alle dimissioni da una trama giustizialista poi rivelatasi infondata, difficilmente si può considerare espressione di una conversione di Salvini alle ragioni e alle funzioni dello statalismo centralista. Resta solo la spiegazione più ovvia ma anche mortificante della strumentalizzazione politica, che in vicende legate al terremoto dovrebbe essere accantonata.