Donald Trump (foto LaPresse)

Populista a chi?

Giovanni Maddalena
Spesso si usa il termine “populismo” per denigrare le idee che non rientrano nel mainstream della cultura dominante tra le persone colte che detengono la maggior parte dei sistemi di comunicazione, dall’insegnamento ai talk-show. Penso che sia un errore perché si crea così una “comunicazione dei due mondi”, quello della cultura dominante e quello di tutti gli altri.

L’ultimo è Hans Rauscher, intellettuale austriaco, intervistato domenica scorsa dalla Stampa. Anche lui, come molti altri in questi mesi, individua il nemico nel “populismo”, curiosamente descritto nel seguente modo: “Populismo significa che un politico che la pensa in un certo modo può convincere la gente che qualcosa sia molto buono per tutti, quando in realtà è molto cattivo. Il populista dice alle persone quello che vogliono sentirsi dire, anche se sanno che non è così.”

 

Con una definizione del genere tutti i politici sono populisti o nessuno lo è. Non credo che Trump, che rientra tra i temuti populisti di Rauscher, pensi in realtà che la sua politica di rifiuto dello schema “neocon” per tornare all’antica dottrina repubblicana sia falsa o inefficace e che la proponga solo per assecondare l’umore della gente. In questo senso, era molto più populista Bush quando dichiarava guerra all’Iraq in nome della difesa contro armi di distruzione di massa. Altre domande nascono con una definizione così generica. Era populista Obama quando diceva che le primavere arabe erano l’albore della democrazia o che l’Isis non era affatto pericoloso perché una squadra di ragazzi di college che si mette le magliette dell’Nba non è ancora una squadra da Nba? Non lo so. Sapeva o non sapeva? Per rimanere a casa nostra, è più populista Grillo quando propone l’uscita dall’euro  o la Boschi quando dice che votar sì al referendum serve per la stabilità e, indirettamente, a combattere il terrorismo? Sono convinti di ciò che dicono o sanno che sono ricette false o nessi falsi ma le usano perché convinti di aumentare il consenso?

 

La definizione di “populismo” non può essere così banale e non è di certo di facile applicazione. In realtà tutti fanno appello al popolo e sperano di ottenerne il consenso. Il populismo dovrebbe essere l’ideologia basata sulla popolarità, ossia in pratica il cambiare le proprie idee in virtù dell’ottenimento del consenso e non viceversa. Tuttavia, messa così, in quasi tutti i politici c’è una certa dose di populismo quando cambiano concetti, parole e toni in base ai sondaggi. In generale non sembra che ciò accada più a Trump, Le Pen, Grillo, Farage che ai rappresentanti dei partiti tradizionali. Anzi, i cosiddetti populisti sembrano avere idee molto precise e, piuttosto, li si dovrebbe accusare del contrario, cioè di non essere abbastanza disposti a cambiarle. In generale, però, anch’essi chiedono al popolo il consenso su certe idee e proposte e riescono a intercettare le esigenze di molti. Non c’è nessuna differenza tra i loro partiti e gli altri, se non forse nei toni, ma anche questi, se analizzati, sono meno diversi di quanto non sembri a prima vista.

 

La vera questione è che spesso si usa il termine “populismo” per denigrare le idee che non rientrano nel mainstream della cultura dominante tra le persone colte che detengono la maggior parte dei sistemi di comunicazione, dall’insegnamento ai talk-show. Penso che sia un errore perché si crea così una “comunicazione dei due mondi”, quello della cultura dominante e quello di tutti gli altri. I due mondi comunicazionali non si toccano, girando autoreferenzialmente su se stessi e mantenendo sospetto e disistima per temi e strumenti comunicativi dell’altro mondo.

 

E’ una vicenda complicata che riguarda la sociologia e la psicologia della comunicazione, i cui sviluppi attuali permettono la creazione di sfere comunicative indipendenti. Tuttavia, per quello che riguarda la politica, che è interesse comune, la comunicazione dei due mondi è pericolosa. Più si insiste con il denigrare ogni idea non mainstream come populismo, senza mai affrontarla nel merito delle esigenze che esprime e delle soluzioni che propone e più il divario cresce e con esso risentimento e tensione sociale. Forse, sarebbe ora che i partiti tradizionali e la loro comunicazione abbandonassero lo schema “idee corrette vs. populisti” e cercassero di entrare nelle idee e nel mondo comunicativo di tutta quella fetta di popolo che non ha più fiducia in loro e che li rimprovera di non avere ideali riconoscibili al di là della ricerca del potere.

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