Marco Pannella (foto LaPresse)

Marco Pannella, uno scandalo radicale

Diego Galli
C’era del metodo, oltre che del cristianesimo, nel Pannella difensore di capri espiatori e minoranze. Una linea politica, non solo per i suoi compagni di oggi. Il dissenso da tutelare con la nonviolenza e con le regole. Ricordando la massima di Pascal: “Chi vuol essere angelo è bestia”.

Diego Galli lavora a Radio Radicale dal 2003. Ha fatto parte degli organi dirigenti di varie organizzazioni radicali per oltre un decennio, prima di formarsi come community organizer con l’organizzazione americana Industrial Areas Foundation, ed iniziare a promuovere questo approccio in Italia. E’ autore del libro “Pannella. La vita e l’eredità” (Castelvecchi), in libreria.

 


 

Piacerà, credo, ai lettori del Foglio ricordare Pannella con queste parole: “Adesso sono di moda i giusti. Loro sono sempre in buona fede. Hanno sempre bisogno di indicare alla plebe chi bisogna impiccare. Non conoscono una delle più belle massime di Pascal: ‘Chi vuol essere angelo è bestia…’. Credo che ogni politico serio dovrebbe ammettere almeno sette errori al giorno. E non scagliare esclusivamente pietre contro gli altri. In politica coloro che scagliano sempre la prima pietra appartengono alla razza dei giustizieri che divorano la giustizia invece di amarla. Questo è un paese lassista che poi pensa di salvarsi con le forche” (Panorama, 1° novembre 1992).

 

Sarebbe tuttavia riduttivo rintracciare in queste parole soltanto la conferma del garantismo e della visione critica di certa magistratura che certamente sono stati tratti distintivi del leader radicale. C’è un addentrarsi del discorso in un ambito più profondo, segnalata da alcune parole appartenenti a un ordine spirituale, come gli angeli, o la metafora evangelica dello scagliare la prima pietra. Non è mia intenzione addentrarmi ora nei rapporti di Pannella con la religiosità in particolare cristiana, su cui è stato detto e scritto molto, a partire dall’interessato. Mi interessa invece sottolineare un aspetto più profondo dell’azione politica di Pannella, ed è il suo porsi sempre dalla parte non solo delle minoranze, ma delle vittime prescelte di volta in volta come caprio espiatorio di determinati flagelli sociali. Non è casuale che Pannella abbia voluto candidare Toni Negri quando era accusato, tra l’altro, di essere il telefonista delle Brigate rosse durante il sequestro Moro, una delle azioni terroristiche più tragiche della storia italiana. Racconterà commentando le reazioni alla sua elezione in Parlamento: “A Toni, un anno fa, quando mi recai per annunciargli la nostra determinazione, dissi subito: ‘Costerà centinaia di migliaia di voti, il linciaggio, la criminalizzazione’”. Così come non è un caso che abbia deciso di candidare Enzo Tortora, accusato, e solo dopo anni completamente scagionato, di far parte della Nuova Camorra organizzata. Non è un caso che abbia accolto nel partito ex terroristi, che abbia preso posizione contro la criminalizzazione dei tossicodipendenti, contro i manicomi per i malati psichiatrici, contro il carcere per gli obiettori di coscienza al servizio militare, né che da sinistra abbia difeso lo stato di Israele, la legittimità del Movimento sociale italiano, la presunzione di innocenza di molti politici vittime del giustizialismo, e che quando la loro causa non rappresentava affatto una bandiera colorata da far sbandierare con orgoglio alle finestre, abbia ospitato nel suo partito la prima organizzazione a difesa dei diritti degli omosessuali, il Fuori.

 

Forse ancor più che da un principio, per quanto nobile, come quello di tolleranza, Pannella è stato mosso dal suo saper interpretare lo scandalo. Per questo ha sempre criticato i liberali che citavano Voltaire nei discorsi eruditi, ma che poi “non avrebbero rinunciato non solo alla vita, ma neanche a un caffé, per permettere ai loro avversari di esprimersi”.
Devo alla psicoanalista Enrichetta Buchli, che con Pannella ha partecipato ad alcuni convegni sulla riforma del diritto di famiglia ispirati al suo libro “Il mito dell’amore fatale”, la comprensione della centralità delle intuizioni di René Girard rispetto alla fonte antropologica della sensibilità odierna per i diritti umani e civili. E’ proprio Girard a sottolineare l’importanza del “linguaggio dello scandalo” nei Vangeli. Lo scandalo, parola che significa “pietra d’inciampo”, rivela un meccanismo attraverso il quale la società tenta di liberarsi della rivalità interna tra i propri membri. Quando questa rivalità è proiettata su un individuo ritenuto colpevole di tutti i mali, la comunità sconvolta dallo scandalo procede verso l’eliminazione del colpevole per ritrovare la sua pace e unità interne.

 

In una trasmissione di “Linea Rovente” del 1987 condotta da Giuliano Ferrara sul tema dello “scandalo in politica”, Pannella si espresse così: “Credo che noi siamo coloro che hanno fatto scoppiare per moralità gli scandali, cioè il pallone dello scandalo lo abbiamo fatto scoppiare e scomparire come tale a volte dalla vita del nostro paese. Lo scandalo dell’aborto ha fatto scoppiare, nel senso di ha svuotato, la vergogna infame, tremenda, terrorizzante, e non sono eccessivo nella parole, del grande aborto clandestino di massa”. Far esplodere lo scandalo, come afferma Pannella in termini “evangelici”, significa in realtà farlo scomparire in quanto meccanismo espulsivo che tenta di individuare al più presto un colpevole, una vittima innocente, per liberarsi dalla crisi innescata nel momento in cui vengono toccati alcuni tabù collettivi, si scatena la rivalità mimetica, e i membri della società cercano disperatamente un colpevole per ripararsi da ogni possibile accusa o assunzione di corresponsabilità.
Nella prefazione al libro “Underground a pugno chiuso” del 1973, un testo che Pier Paolo Pasolini definì “un avvenimento della cultura italiana di questi anni”, Pannella scrisse: “Sosteniamo, insieme, che non esistono nelle carceri, negli ospedali, nei manicomi, nelle strade, sui marciapiedi, nei tuguri, nelle bidonville, dei «peggiori» ma, anche lì, dei «diversi», malgrado la miseria (che è terribile proprio perché degrada, muta, fa degenerare: e se no, perché la combatteremmo tanto?), malgrado il lavoro che aliena (che rende “pazzi”), malgrado che lo sfruttamento classista sia “secolare”, quindi incida sull’ereditarietà”.
Nello stesso testo, nel tentativo di mostrare il carattere altrettanto persecutorio dell’antifascismo, lo descriveva impregnato della “maledizione di una cultura violenta, antilaica, clericale, classista, terroristica e barbara per cui l'avversario deve essere ucciso o esorcizzato come il demonio, come incarnazione del male”. Sempre Pier Paolo Pasolini, nel discorso letto postumo al congresso del Partito radicale del 1975, dopo aver riconosciuto ai radicali di non “avuto paura né di meretrici né di pubblicani, e neanche – ed è tutto dire – di fascisti”, incoraggiava Pannella e gli altri a “a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare”.

 

Un modo di bestemmiare, tuttavia, assai in linea con la tradizione giudaico-cristiana. Secondo Girard a fondamento di ogni cultura e comunità c’è il racconto mitologico di un sacrificio rituale, un colpevole prescelto che funge da caprio espiatorio, grazie al quale la comunità si fonda. Nel racconto biblico sulla fondazione del mondo, tuttavia, il libro della Genesi, accade per la prima volta che un uomo che compie un atto abominevole come l’uccisione del fratello, venga risparmiato e sulla sua discendenza si fondi un nuovo popolo. Si tratta di Caino. Se Dio non lo mettesse al riparo dalla punizione per aver ucciso Abele per invidia (l’invidia del desiderio mimetico), l’umanità si sarebbe estinta, essendo Caino l’unico figlio superstite di Adamo ed Eva. Il cristianesimo quanto il profetismo ebraico si basano quindi sul rigetto esplicito dell’omicidio fondativo come mito di origine della comunità. Sarà un caso che la campagna radicale contro la pena di morte trarrà la propria denominazione proprio da questo racconto intitolandosi “Nessuno tocchi Caino”?

 

E’ in questo senso che se si deve parlare di radici cristiane dei valori occidentali, come la cultura dei diritti umani e delle garanzie giuridiche, bisogna guardare. Nel dibattito odierno sul populismo mi sembra esserci un equivoco di fondo. La problematicità che il termine vuole indicare non è certamente contenuta nel richiamo al popolo, ma in quell’“ismo” che sta lì a segnalare una deriva ideologica. L’esaltazione acritica del popolo sottesa a questo termine ci spaventa perché conosciamo il meccanismo che consente al popolo di esaltarsi e sentirsi uno, eliminando le proprie differenziazioni. Il meccanismo appunto del capro espiatorio.

 

Le battaglie di Pannella hanno invece riguardato sempre i diritti delle minoranze, e tra queste gli esseri umani che possono essere considerati invisibili nella nostra società, quelli che Zygmunt Bauman ha chiamato “vite di scarto”, vittime di meccanismi di “espulsione” e eliminazione burocratici (Saskia Sassen), non decisi da nessuno ma da forze anonime che via via definiamo “mercato”, “conflitti”, “criminalità organizzata”, e “amministrazione della giustizia”. Nella prima metà degli anni Ottanta Pannella investì tutto il patrimonio di credibilità conquistato con le sue campagne su divorzio e aborto per salvare milioni di vite dallo “sterminio per fame nel mondo”. Nel manifesto-appello che fece sottoscrivere a 114 premi Nobel scrisse che “occorre ribellarsi contro il falso realismo che induce a rassegnarci come a una fatalità a quel che invece appartiene alla responsabilità della politica e al disordine stabilito”. Negli ultimi anni della sua vita si è occupato molto dei carcerati, ma anche delle popolazioni oppresse sotto paesi dittatoriali dai nomi impronunciabili come i Tibetani, gli Uiguri, i Montagnard, gli immigrati morti nel Mediterraneo per i quali chiedeva l’attivazione di un sistema satellitare di salvataggio per evitare che il Mare Nostrum si trasformasse, come sta avvenendo, in un “grande cimitero sotto la luna”.

 

Ma i meccanismi del capro espiatorio sono pervasivi e duri a morire. Così Pannella all’interno del suo partito li ha spesso fatti rivivere nei modi più classici e allo stesso tempo più difficili da identificare per chi fosse arrivato lì attratto proprio dal suo messaggio di tolleranza radicale. Forse consapevole proprio di questo, ha sempre insistito con accanimento sulle regole degli statuti e sulle procedure decisionali del partito. Queste non hanno tuttavia preservato il Partito radicale dal mettere in moto meccanismi di espulsione del dissenso, e l’ammirazione a volte idolatrica a volte piena di rivalità riservata al personaggio da molti di noi, non ha certamente aiutato a portarli allo scoperto. Ciò nonostante, il suo messaggio di tolleranza radicale attuato attraverso la nonviolenza, la sua difesa delle vittime ancorata alle procedure giuridiche, il suo sollevare lo scandalo come strumento di accesso ai mass media per difendere minoranze di ogni tipo, rappresentano una delle eredità più importanti che ci lascia. Come ha scritto Matteo Marchesini su questo giornale, uno dei suoi messaggi più preziosi è la massima di Pascal con cui si è aperto questo articolo. Perché se vogliamo preservare la convivenza civile nelle nostre società sempre più distanzianti, multiculturali e sottoposte allo stress di continue crisi, dobbiamo ricordarci “che nessuno è superiore al più colpevole dei carcerati”.