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Cara Raggi, l'urbanistica statocentrica non garantisce onestà e funzionalità

Manuel Orazi
L’assessore all’Urbanistica Paolo Berdini ha delineato l’intelaiatura programmatica al Movimento grillino in fatto di politiche urbane: una lunga serie di no. Bisogna rinunciare a qualsiasi opera pur di evitare l’endemica corruzione italiana. Idee alternative per la neogiunta. Parlano i prof. Mastrigli e Micelli.

Roma. Attivo, attivissimo l’assessore all’Urbanistica in pectore della giunta a 5 stelle di Virginia Raggi che esordirà oggi nella capitale. Paolo Berdini, urbanista ed editorialista del Manifesto, nonché autore di diversi saggi in cui ha lanciato chiaro il suo j’accuse: in “Le città fallite” (Donzelli), in gran parte incentrato sulla capitale, ha delineato l’intelaiatura programmatica al Movimento grillino in fatto di politiche urbane: “Con il decreto Sblocca Italia si mette il patrimonio immobiliare pubblico nelle mani della finanza, e mentre il paese affonda nel fango per il dissesto idrogeologico, si continua con la politica delle grandi opere inutili (…) le proprietà pubbliche devono diventare il volano per creare lavoro per i giovani. Il liberismo ha imposto la cancellazione delle pubbliche amministrazioni e ha fallito. Per uscire dalla crisi occorre mutare paradigma: ricostruire le città pubbliche e il welfare urbano”. Ovvio che sia a Roma sia a Torino questa impostazione si traduca operativamente in una lunga serie di no: no alla Tav, no alle Olimpiadi, no alle metro 2 torinese e C romana, no al nuovo stadio della As Roma degli americani o quantomeno a una loro messa in discussione. Di recente Berdini ha dichiarato che la scelta di posizionare il nuovo stadio della Roma a Tor di Valle, approvata dalla giunta Marino e dall’ex assessore Giovanni Caudo, non va bene e ha minacciato di indire un referendum in cui a fronteggiarsi sarebbero due populismi di natura differente: di qua gli anti urbani a cubatura zero, di là i romanisti.

 

Berdini, salvo una leggera retromarcia dell’ultim’ora causa smentita ufficiale del Movimento, non demorde. La posizione dello stadio è sbagliata perché l’hanno scelta i privati cioè i proprietari dell’area (Luca Parnasi) e gli investitori (il presidente James Pallotta) con la consulenza di una società immobiliare di proprietà Exor cioè della famiglia Agnelli, mentre queste decisioni spettano solo ed esclusivamente al comune. E qui il discorso prende una piega squisitamente ideologica. Non basta che queste decisioni fossero già state concordate con la precedente giunta Marino (non esattamente degli anarco-liberisti), che costruire sopra l’ex ippodromo di Tor di Valle (dismesso nel 2013) consentirebbe non solo un limitato consumo di suolo o recycle che dir si voglia, ma anche un’ottima soluzione logistica grazie alla vicinanza dell’uscita del Gra, dell’aeroporto di Fiumicino, della fermata del treno e della via Ostiense.

 

Il problema è un altro: la Exor ha realizzato fino a oggi l’unico stadio moderno d’Italia, vale a dire con ristoranti, museo, centro commerciale eccetera, quello della Juventus insomma che nemmeno la giacobina Chiara Appendino ha impugnato. A Roma invece lotta dura alla speculazione privata purchessia. Per carità, episodi di corruzione e cattiva speculazione non sono mancati un po’ dappertutto per lo Stivale, ma questo non significa che bisogna rinunciare a qualsiasi opera pur di evitare l’endemica corruzione italiana. Se ne può discutere, dice Gabriele Mastrigli, professore di Progettazione architettonica ad Ascoli Piceno: “Per la cronaca lo stadio è proprio accanto al quartiere Incis a Decima opera di Luigi Moretti, Adalberto Libera e altri, gli stessi autori del coevo villaggio olimpico del 1960 a Roma nord. Uno dei pochi brani di Roma genuinamente moderni e da rivalutare. Secondo me l’area non è per nulla sbagliata. Una porzione della coda della cometa (l’ampia area urbana da Roma sud si allarga verso il mare, ndr). In fondo è un modo di densificare la città. Ripeto, la questione è capire bene ciò che ci si costruisce e come è fatto. Architecture matters. E qui non sono sicuro che le torri di Daniel Libeskind siano la soluzione”. Già le torri, tre, necessarie secondo la committenza per finanziare il progetto complessivo seguendo il modello di “urbanistica riformista” come hanno spiegato Francesco Karrer e Sergio Pasanisi sul Foglio.

 

Secondo Ezio Micelli invece, professore di Valutazione economica dei progetti presso l’Università Iuav di Venezia e autore di “Perequazione urbanistica: pubblico e privato per la trasformazione della città” (Marsilio), occorre distinguere bene: “Contesto l’idea di un’urbanistica riformista intesa come un baratto fra pubblico e privato, una mera equazione metri cubi in cambio di permessi. Ci possono essere due modelli urbanistici: uno competitivo come quello auspicato da Karrer e Pasanisi che mira all’ottimizzazione dei processi, vale a dire spendere meno, offrire più posti a sedere o più servizi a parità di condizioni di partenza. Io però, da liberale-radicale quale mi ritengo, preferisco il modello esplorativo. L’amministrazione detta le regole, certo, ma deve stimolare anche le idee del privato perché non è detto che il soggetto pubblico sappia sempre cosa offrire alla città. Vanno impostate gare di innovazione che io chiamo ‘dispositivi abilitanti di innovazione economica e sociale’ e per questo la partnership coi privati è fondamentale. In buona sostanza quando si trovano buoni progetti poi si trovano anche i finanziamenti necessari”. Si tratta insomma di negoziare nello specifico e di modificare il progetto in situ e in meglio.

 

Solo per fare un esempio: a Basilea, nello stadio St. Jakob-Park rinnovato nel 2001 demolendo quello precedente, oltre ai soliti ristoranti, museo della squadra, eccetera, gli architetti Herzog & De Meuron hanno inserito residenze per anziani maschi soli pensando che tutto l’afflusso e il deflusso dei tifosi potesse spezzare la loro solitaria routine, con ottimi risultati. La discussione pubblico-privato è dunque non solo imprescindibile, ma da impostare su basi nuove, più acconce al nuovo secolo: non occorre rievocare infatti i fallimenti delle operazioni urbanistiche affidate solo alla mano pubblica, dallo Zen a Tor Bella Monaca, per dimostrarlo.