Giorgio Napolitano e Luciano Lama al Congresso PCI negli anni 80, Roma (foto LaPresse)

In ricordo di Lama

Giuliano Cazzola
L’ex segretario della Cgil intuì il disastro delle pensioni d’anzianità. Poi prevalse la ragion di sindacato: la riforma del 1969 ripristinò il diritto pieno al pensionamento d’anzianità. L’etica politica di quei tempi impose a Lama una sostanziale autocritica, benché avesse ragione.

Vent’anni or sono moriva Luciano Lama, il leader della Cgil che per tanto tempo (fu segretario generale dal 1970 al 1986) ha impersonato, agli occhi (non solo) degli italiani, il sindacato fermo nei princìpi, ma dotato di quella dose di realismo e di ragionevolezza che ne fa un protagonista indispensabile di una società democratica e un soggetto chiamato a operare in una logica gradualista e riformista. Di Lama, della sua vita, il sottoscritto potrebbe scrivere a lungo. In questa occasione intendo ricordare un episodio che, in qualche modo, rende più attuale l’azione di Luciano Lama in relazione a un tema che ancora oggi è aperto nel paese: la questione delle pensioni e, in tale contesto, del trattamento anticipato di anzianità (che tuttora si nasconde all’interno del dibattito ossessivo sulla flessibilità in uscita dall’attività lavorativa). Fedele a se stesso, Lama non si tirava indietro davanti alle responsabilità. Gli capitò un infortunio rilevante, nel senso che dovette sperimentare per primo – e con l’anticipo di alcuni decenni – l’attaccamento dei lavoratori al pensionamento di anzianità, l’istituto che, nel tempo, avrebbe fatto tremare i governi e sarebbe divenuto l’obiettivo irrinunciabile per le organizzazioni sindacali, almeno fino alla riforma Fornero (che, del resto, non ha prodotto sostanziali effetti nei confronti di questa tipologia pensionistica, se si considera che il numero di tali trattamenti, nei dati di flusso, supera ancora quello della vecchiaia). Per proseguire nel racconto, si deve ricordare che nel 1965 una leggina vagante aveva introdotto, nei regimi privati, il trattamento di anzianità, ovvero la possibilità di andare in pensione, a qualunque età, dopo 35 anni di servizio. Si era capito subito che si trattava di un errore clamoroso. In quei tempi la gente iniziava a lavorare in giovane età (appena terminata la scuola dell’obbligo, se non prima con la licenza elementare).

 

Era sufficiente fare una banale somma per capire che, nel giro di alcuni decenni, un esercito di cinquantenni avrebbe maturato il diritto alla pensione (nel contesto di un allungamento dell’attesa divita). Così, nel 1968, in occasione di una trattativa con le confederazioni in materia di previdenza, il governo aveva fatto una serie di concessioni (la più importante delle quali riguardava l’aggancio della pensione alla retribuzione dell’ultimo periodo di attività lavorativa), ma si era rimangiato il pensionamento anticipato d’anzianità, proponendo di limitarlo, ancora per qualche anno, ai casi in cui l’interessato avesse perduto il posto di lavoro. La delegazione trattante (la Cgil era rappresentata da Lama) aveva sottoscritto l’intesa, trovandola più che ragionevole. Tornato in sede, Lama aveva incontrato opinioni diverse. La segreteria decise, allora, di compiere una consultazione delle strutture, mentre in qualche fabbrica del nord si svolgevano alcuni scioperi spontanei. Il responso (evento raro in quei tempi) fu generalmente negativo. Così Lama si recò a ritirare l’adesione, mentre la Cgil dichiarava da sola lo sciopero generale.

 

L’autocritica obbligata

 

E’ evidente che la questione di merito non era la ragione prevalente di quel malessere. E non sembra neppure convincente pensare che quei lavoratori giovani (provenienti da un duro processo di immigrazione interna) avessero già in mente il tempo della loro andata in quiescenza. E’, piuttosto, più credibile che soffiassero forte i venti della contestazione che dal maggio francese si erano diffusi in tutta Europa e, soprattutto, che stesse arrivando l’onda lunga della delusione per l’ultima stagione di rinnovi contrattuali, dalla quale erano arrivati miglioramenti assai modesti, nonostante il richiesto sacrificio di parecchie ore di sciopero. Comunque andarono le cose, la riforma delle pensioni del 1969 (la legge n. 153) ripristinò il diritto pieno al pensionamento d’anzianità (all’inizio degli anni settanta, addirittura, vennero ulteriormente accorciati i requisiti temporali a favore del pubblico impiego, dando avvio alla famigerata stagione delle baby pensioni).

 

Quella contestazione e quello sciopero sono rimasti nell’immaginario collettivo dei sindacati, tanto che l’istituto è diventato una sorta di tabù. L’etica politica di quei tempi impose a Lama una sostanziale autocritica, benché avesse ragione. Se, allora, si fosse realizzata un’ampia revisione della disciplina del trattamento di anzianità, si sarebbero evitati molti guai in seguito, dei quali non ci siamo ancora completamente liberati. La Cgil però realizzò, nell’immediato, un buon risultato politico, dal momento che lo sciopero generale fu un successo. Quella vicenda, comunque, non impedì – un altro segno della moralità di quei tempi e di quelle personalità – a Lama di diventare, due anni dopo, segretario generale della Cgil.

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