Matteo Brambilla (foto LaPresse)

Fenomenologia dell'ing. Brambilla, grillino brianzolo candidato a Napoli

Salvatore Merlo
Dieci aspiranti sindaco che s’insultano, quarantuno liste, un ginepraio di sigle civiche anche assai fantasiose. Ecco la campagna elettorale più stramba e sgrammaticata

Roma. Forse a Napoli il valore dominante della politica è la stramba ironia delle cose, che è lo smalto del relativismo, l’ironia che permette di abitare senza soccombere non solo tutti i luoghi comuni sul mezzogiorno, ma pure ogni stravaganza, ciascuna di quelle inversioni di senso che altrove sarebbero imprendibile cortocircuito, mentre solo a Napoli si fanno prosecuzione della normalità. Ed è infatti a Napoli, già sporcata dalla monnezza dei santini e dei manifesti elettorali, che si consuma, con quieta e appunto ironica normalità, la campagna elettorale forse più stramba, sgrammaticata ed eccentrica di queste amministrative: dieci aspiranti sindaco che s’insultano in televisione e sui giornali, quarantuno liste, un ginepraio di sigle civiche anche assai fantasiose, millecinquecento candidati: e allora c’è il sindaco ex pm della variabile escatologica, del “devi cacarti sotto” e dello “scassiamo”, c’è il (ri)candidato già una volta perdente del centrodestra, c’è poi il Pd ancora catatonico e sbandato per le primarie da cui è stato escluso il vecchio Antonio Bassolino, e infine c’è lui, il vero capolavoro della fantasia letteraria e politica partenopea: Matteo Brambilla, un brianzolo al Vomero, il candidato del Movimento cinque stelle.

 

Ed è chiaro che a Napoli questo placido e gentile ingegnere nato a Monza quarantasei anni fa, e napoletano dal 2006, è come Totò a Milano, con la differenza che quello stava in un film comico e questo in un progetto istituzionale. “Voglio vivere a Napoli tutto il resto della mia vita”, ha dichiarato. E infatti appena viene intervistato, anche in televisione da Lilli Gruber, intona “O’ sole mio”, cerca dunque l’inflessione napoletana come Totò cercava la neve e le renne. E a Santa Lucia, di fronte Castel dell’Ovo, circondato da curiosi e telecamere, ha persino articolato uno strano “Scetateve guagliù”, ma con accento lombardo: insomma l’ingegner Brambilla indossa il dialetto come Totò indossava il colbacco e la pelliccia. “Non mi sento un monzese, io sono un napoletano che abita a Napoli”, insiste, con mite caparbietà. E sembra Gérard Depardieu nella vecchia pubblicità dei pomodori pelati: “Tengo o’ core italiano”. La sua è una frase veloce, vera e abbagliante che, al tempo stesso, esprime il paradosso della situazione meglio di ogni altra.

 

E certo i napoletani, che hanno visto Achille Lauro e poi le bandane di De Magistris, che hanno conosciuto Gava e i film di Francesco Rosi, sono abituati allo zoo della politica, ai simboli di quel pittoresco che, diceva Croce, “ci ha fregati per tre secoli”, sanno cioè riconoscere la patacca, non illegale ma ruffiana, non illecita ma sconclusionata: l’uomo del nord chiamato a mettere ordine in quel vulcano d’Italia che è la Capitale del mezzogiorno. E così lo chiamano “il vincitore impossibile” perché ha conquistato a sorpresa le primarie online del M5s, con circa duecento voti, battendo due napoletanissime signore che si chiamano Menna e Verusio, ma lo chiamano “impossibile” anche perché nella città dello sberleffo nessuno lo prende fino in fondo sul serio, perché non ha la “cazzimma”, e perché nessuno crede che con la sua aria precisa e pignola, con la sua faccia da ramo del Lago di Como, possa misurarsi tra i frizzi e i lazzi degli altri candidati, nel furbesco girone degli indagati, tra cantanti neomelodici, rivoluzionari da asporto e masanielli da diporto. E dunque il dottor Brambilla al Vomero è considerato solo l’ennesimo trucco nella città di Nanni Loy, quella di “Pacco, doppio pacco e contropaccotto”: c’è un lombardo, che per giunta tifa Juventus, candidato al comune di Napoli, un’immagine che può persino suscitare ammirazione, la stessa che si prova però per gli acrobati, o per quelli che corrono senza gambe, o per i geniali imbonitori di Spaccanapoli, quelli che vendono gli orologi “che segnano tutte le ore dei sei continenti”. L’idea di un ingegnere di Monza che arringa il popolo dei bassi sul “trattamento anaerobico dei rifiuti”, malgrado pare sia venuta ai milanesi della Casaleggio Associati, sembra infatti una trovata tanto napoletana quanto lo sono la Pastiera e Capo di Monte, le battute di Totò e le esibizioni di Alessandro Siani a teatro, o le gag di “Incantesimo napoletano”, il film di Paolo Genovese. “Mia figlia è strana”, “ma chi Assuntina?”, “parla milanese”, “oh maronna!”.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.