Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (foto LaPresse)

Renzi e il passaggio doloroso da principe del cambiamento a difensore di una nuova stabilità

Claudio Cerasa
C’è un disco che gracchia. I rischi sono molti e non tutti dipendono dalla volontà del presidente del Consiglio. Per conquistare l’elettore della nazione non serve rincorrere il consenso, serve buon senso e meno #Adesso.

Lungo il sentiero scivoloso che dovrà seguire Matteo Renzi da qui al referendum costituzionale esistono alcuni ostacoli importanti, persino più temibili delle strategie della minoranza del Pd, che a seconda dei casi renderanno più instabile il filo sottile sul quale cammina il presidente del Consiglio. Gli ostacoli più visibili che avranno un impatto sul cammino del segretario del Pd, amministrative a parte, sono i dati sull’economia, la crescita, il pil, la disoccupazione, gli investimenti dall’estero, la resistenza del sistema bancario, l’esito del referendum sulla Brexit, l’attivismo potenzialmente letale dei magistrati politicizzati, il rischio terrorismo (“Faccio questo mestiere da otto anni e non ho mai affrontato una minaccia così acuta e cosa ancora più importante, assistiamo al ritorno di combattenti in numeri più elevati rispetto alle attese”, ha detto ieri il numero uno dell’antiterrorismo europeo, Gilles de Kerchove) e la gestione di quel flusso di migranti destinato, nonostante l’ottimismo forse eccessivo del governo, a crescere con l’arrivo della bella stagione, complice la chiusura della rotta balcanica.

 

Come è evidente, i rischi sono molti e non tutti dipendono dalla volontà del presidente del Consiglio. Ma tra i pericoli che spesso ci si dimentica di segnalare ragionando sui mesi che ci separano dal big bang del referendum costituzionale ce ne è uno che riguarda non tanto i nemici di Matteo Renzi ma, rullo di tamburi, lo stesso Matteo Renzi. Nonostante il tentativo disperato e non sempre riuscito di spersonalizzare un referendum che è stato lo stesso Renzi a voler personalizzare, il voto di ottobre sarà oggettivamente un voto sul presidente del Consiglio. Perciò, arrivati a questo punto del cammino, si possono certamente mettere insieme ed elogiare le molte cose fatte dal segretario del Pd (Italicum, Jobs Act, riforma delle banche popolari, riforma costituzionale) ma non si può non ammettere che la retorica di Renzi ha qualcosa che non va. Ed è sotto gli occhi di tutti che in alcune occasioni il renzismo comincia a stonare e a gracchiare come un disco di successo, sì, ma lasciato girare per troppo tempo sotto la stessa puntina. Il ronzio provocato da questo disco a volte inceppato è generato da una trasformazione non ancora avvenuta e da, come si dice, un salto di qualità necessario, e tuttora da compiere, che rappresenta la vera sfida che attende nei prossimi mesi il presidente del Consiglio. Da un certo punto di vista è comprensibile che Renzi cerchi ancora di autorappresentarsi come fosse lo stesso rottamatore arrivato a Palazzo Chigi quasi senza passare dal via. Ma dopo due anni e passa di governo, Renzi ha urgenza di capire che il voto dell’elettore della nazione non lo si conquista più aprendo semplicemente l’album Panini delle figurine dei gufi e dei professionisti delle tartine ma lo si conquista facendo tesoro di quel nuovo status incarnato dal presidente del Consiglio: essere non più il principe del cambiamento ma il difensore di una nuova stabilità. Chi sceglierà di sostenere Renzi al referendum lo farà per questo, non solo per promuovere una legge capace di dare al paese una forma di governabilità più funzionante rispetto al passato, e anche chi andrà a votare i Sala, i Fassino, i Giachetti, i Merola e le Valente alle prossime amministrative lo farà perché nei loro contesti locali i vari candidati sindaco portano con sé lo stesso messaggio di stabilità incarnato da Renzi.

 

Il passaggio da principe del cambiamento a difensore di una nuova stabilità non è però un passaggio indolore e prevede una serie di step pericolosi se non accompagnati da un nuovo approccio. Il Renzi rottamatore che sul referendum costituzionale viene sostenuto dai grandi banchieri, dai grandi imprenditori, dai grandi confindustriali, dai grandi uomini della finanza, dai grandi leader europei è un Renzi in contraddizione con quel segretario del Pd che avrebbe voluto scassare il sistema e rivoltare come un calzino l’establishment (la rottamazione dell’establishment era il cuore della mozione congressuale del 2013). E’ in contraddizione, stona, gracchia, non solo per quello strano ronzio prodotto dall’effetto annuncio (se dovessimo prendere per veri tutti gli annunci relativi alla prossima Legge di stabilità, dalle pensioni in giù, la manovra 2016 costerebbe tra i 20 e i 25 miliardi) ma anche perché al presidente del Consiglio manca un passaggio importante nel suo percorso di crescita: sostituire alle figurine dei gufi cattivi le immagini delle vere figure che rappresentano i nemici più autentici del renzismo, del governo e del paese. I Landini, gli Emiliano, le Camusso, i Salvini, i Davigo e i professionisti del no sono avversari veri ma sono avversari che passerebbero in secondo piano e che non avrebbero più un grande impatto e un grande peso se alla politics da rottamare venissero sostituite le policy da affrontare una volta per tutte. I lettori di questo giornale conoscono a memoria le policy cruciali – dalle liberalizzazioni alla concorrenza passando per la riforma della giustizia e della Pubblica amministrazione – che se non affrontate fino in fondo pesano sull’andamento del pil più di una frase di Emiliano o di un tweet di Salvini e la vera partita che dovrà giocare nei prossimi mesi Renzi sarà proprio questa. Capire che i nemici veri ormai sono finiti, cambiare rapidamente disco, convincersi che in campagna elettorale non è un tabù fare nuove riforme e rendersi in definitiva conto che per conquistare l’elettore della nazione non serve rincorrere il consenso ma a volte serve solo un po’ di buon senso. Serve tempo. E proprio per questo bisogna spiegare perché la stagione dell’Adesso semplicemente non può esistere più.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.