Comizio di Emma Bonino e Marco Pannella, a Largo di Torre Argentina (foto LaPresse)

Marco, uno e centomila

Pannella, giocoliere incomparabile della lingua italiana

Matteo Marchesini
Pannella è cresciuto nel cuore dell’Italia, e nell’uso dell’italiano si è dimostrato un giocoliere incomparabile, trattandolo con la disinvolta confidenza con cui si accarezza un corpo materno, come emergeva chiaramente nei chiasmi con cui ha titolato spesso le battaglie di Torre Argentina.

Ho discusso insieme a Pannella solo per una breve stagione della mia vita, a vent’anni, con la passione e l’insofferenza di un ragazzo patologicamente refrattario ai rapporti pedagogici. Ma anche quando ho rinunciato a farlo, limitandomi a condividere le molte cose buone che la sua storia poteva offrirmi, e a rifiutare quei difetti che lui non poteva ammettere senza distruggere le basi della propria militanza, ho continuato quasi ogni giorno a mimare dentro di me un nostro dialogo amorosamente polemico. Eppure, anche prima di questi ultimi mesi, il pensiero che veniva a suggellarlo come un tic non era quasi mai un pensiero politico. Era, invece, la percezione costante dell’enorme porzione di felicità che Marco ospitava in sé, e che anche in uno stato da vecchio Lear sembrava quasi conferirgli un senso di onnipotenza fisica.

 

Non so abbastanza di lui, malgrado il mio diuturno ascolto di Radio Radicale, ma sono certo che ha avuto un’infanzia regalmente felice: una di quelle infanzie dominate da madri capaci d’infondere nei figli una fiducia illimitata nella loro possibilità di mostrarsi nudi agli altri e di trasformarli. La madre, si sa, è legata alla lingua: in questo caso il francese. Ma Pannella è cresciuto nel cuore dell’Italia, e nell’uso dell’italiano si è dimostrato un giocoliere incomparabile, trattandolo con la disinvolta confidenza con cui si accarezza un corpo materno. Nei suoi inesauribili giochi etimologici, nei calembour e nei chiasmi con cui ha titolato spesso le battaglie di Torre Argentina, precipitava in sintesi fulminee una stratificata cultura novecentesca dove Pannunzio si mischiava a D’Annunzio, e dove l’oratoria crociana e la vis polemica di Ernesto Rossi convivevano con la poeticità sontuosa di Saint-John Perse, coi cartelli segnaletici bergsoniani (“la durata”) e coi corruschi orgogli religiosi di Bernanos. Ma a differenza di tanti padri nobili e un po’ sterili del liberalsocialismo, Pannella saldava poi il talento linguistico a un genio tutto politico. Ed è da questa unione che ha preso forma una delle sue pratiche più memorabili: quella per cui costringeva l’avversario al dialogo ritorcendogli paradossalmente contro il suo stesso gergo, mostrandogli che sapeva servirsene più creativamente di lui.

 

Così, davanti ai tetri dirigenti Pci, eccolo sostenere che i diritti civili liberali sono l’unica vera alternativa “di classe”, o pretendere di occupare l’estrema sinistra di Montecitorio in quanto erede della Destra storica. E come dimenticare l’appello ai terroristi, chiamati “compagni assassini” per incrinare la loro certezza d’essere gli unici spregiudicati oppositori del regime? “Compagni”: una parola che Marco si è sempre rifiutato di lasciare nelle sole mani della sinistra tradizionale, insistendo sulla bellezza del suo senso primo, della comune divisione del pane. E qui siamo già nei pressi dell’altra clamorosa invasione pannelliana: quella del campo e del linguaggio cristiano, ossia di una lotta anticlericale condotta nel nome della religiosità e magari perfino della teologia. In generale, per rendere (ir)riconoscibile la sua sparuta pattuglia abituata a dividere pane e corpi, idee e prassi, Pannella ha scelto di ritorcere contro il Paese della retorica degradata (cattocomunista, clericofascista o populistico-televisiva) una diversa retorica di eccezionale virtuosismo inventivo. Perciò è riuscito a far filtrare la più complessa e ipotattica cultura letteraria per la cruna dei media più paratattici e piatti, anticipandone addirittura le strategie comunicative. Assorbite le biblioteche degli avi, ha smesso di leggere i libri e ha iniziato a leggere i volti, i gesti, le immagini.

 

Molte delle sue ambiguità sono fisiologicamente legate a questo modo di penetrare dentro l’ecosistema degli interlocutori. Nel paese dell’emergenzialismo, anche il partito del diritto che voleva contrastarlo è diventato coi digiuni pannelliani un partito delle emergenze. Nel paese dei crocifissi politicizzati e degli ipnotizzatori ideologico-religiosi, anche il partito laico che li denunciava ha puntato sul mito dell’incarnazione e ha ipostatizzato il carisma, quasi fosse una sostanza aristotelica e non un fenomeno che si dà solo “in situazione” (già negli anni Ottanta di Drive in, Pannella non poteva più contare sull’effetto spettacolare che produceva nelle ingessate tribune jacobelliane: ormai tutto era spettacolo). Se l’enfasi sul carisma ha permesso a Marco di decostruire la galassia radicale appena tendeva a burocratizzarsi, lo ha anche obbligato a proiettare sull’esterno tutti gli ostacoli e i fallimenti interni. Il fatto è che non ha accettato di essere del tutto responsabile del potere, come la cultura liberale esige.

 

Per questo non voleva far coincidere funzione reale e formale. In teoria agiva così per evitare un accumulo d’influenza, ma in pratica è vero il contrario: solo se il leader ricopre anche ruoli di segretario gli si possono imputare errori singoli e circostanziati, anziché oscillare tra giustificazione perenne e totale rifiuto. La verità è che, simile a molti uomini dalla vocazione insieme pedagogica e politica, Marco giocava su un doppio alibi: quando non funzionava il linguaggio referenziale si rifugiava nella metafora, e viceversa, evitando di separare i piani. Come in altri ambiti Pasolini o Fofi, sapeva recitare la parte del padre, ma voleva al contempo conservare l’allegra irresponsabilità del figlio. Se allenti la tensione da loro giudicata “militante”, questi intellettuali-politici ti richiamano all’ordine; ma se sei tu a contestarli, in nome delle loro stesse contraddizioni, tendono a rifugiarsi in una posa svagata, insofferente: ti accusano di pedanteria, e per non essere inchiodati alle conseguenze delle rispettive posizioni deviano il discorso con una piroetta infantile.

 

La storia di Pannella, insomma, è fatta di ossimori che non si possono sciogliere: un Socrate politico, un Gandhi crociano… Sicuramente, però, Marco era molto distante dal senso del limite di un Chiaromonte, e soprattutto dall’understatement di un Orwell. Voleva in qualche modo “essere tutto”, e quindi (ancora come Pasolini) sapeva gestire bene il sarcasmo, ma sopportava male quella relativizzazione dell’io che è l’umorismo: di qui, anche, le scintille nei leggendari dialoghi domenicali con lo scettico Bordin. Per tutte queste ragioni ho sempre creduto che il linguaggio irripetibile di Pannella, come tutti i gerghi che si muovono acrobaticamente sul confine tra cultura “gratuita” e politica “di scopo”, andasse frequentato tenendo per così dire un piede dentro al suo cerchio simbolico (perché era ricco, fecondo, cioè meritava la fatica dell’esegesi) e un piede fuori (perché altrimenti si scivolava nella mistificazione).

 

Oggi, tra i radicali rimasti a Torre Argentina, c’è un gruppo che si trincera nel suo cerchio e ne trasforma le espressioni canoniche in una scolastica mistagogica, cavillosa, intimidatoria; e c’è un altro gruppo, di giovani laici e tenaci, che a quelle espressioni è in gran parte estraneo. A questi ultimi va la mia simpatia; però non sottovaluto che senza la profondità prospettica della visione pannelliana, la loro laicità potrebbe diventare un po’ angusta. In ogni caso, per concludere vorrei ricordare una delle citazioni preferite di Marco che può servire a entrambe le fazioni, e che comunque non si attaglia solo al moralismo antipolitico grillino, ma anche a certo virtuismo sempre in agguato nelle “terze forze”. "L'uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l'angelo fa la bestia", diceva Pannella col suo Pascal. Ecco: pochi esseri umani, credo, hanno saputo come lui aiutare chi li ha conosciuti a crescere, a migliorarsi, senza mai indurli a dimenticare che nessuno è superiore al più colpevole dei carcerati.

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