Apertura campagna elettorale di Giuseppe Sala come sindaco di Milano (foto LaPresse)

Rumori sinistri. Perché non fa troppo scandalo D'Alema che tifa Parisi

Salvatore Merlo
A Milano il Pd suggerisce a Sala di non usare troppo la parola “sinistra”. Sostegno discreto di Max al candidato del centrodestra.

Roma. Poiché uno ha da farsi perdonare d’essere un po’ di destra (visto che è candidato a sinistra), mentre l’altro cerca d’occultare il fatto d’avere il cuore un po’ a sinistra (dato che è candidato a destra), in questa loro caccia affannata, umbratile e ghignante allo stesso nazarenico elettorato, sia Stefano Parisi sia Beppe Sala, cioè i duellanti gemelli diversi del comune di Milano, sono sottoposti da mesi a un abbacinante carosello di strategie minuziose, comparsate tivù, ammiccamenti suggeriti dalle agenzie di comunicazione, dai persuasori più o meno occulti, dai guru, dai maghi, dagli stregoni del marketing, dagli oracoli della politica, e persino dai loro stessi partiti, cioè dal Pd e da Forza Italia.

 

Così quando a Parisi chiedono se è vero che lui è di sinistra, questo manager dall’aria simpatica e candidato da Forza Italia, esibisce l’espressione scura, chiusa, di uno che ammetterebbe con difficoltà anche soltanto d’aver mai respirato. E quando invece Sala, candidato del Pd, prende la parola in pubblico, la prima frase che pronuncia è più o meno questa, e vale come premessa a qualsiasi risposta riferita a qualsiasi domanda: “Poiché sono di sinistra, credo che…”. E insomma una recita collettiva di cui ciascuno dei due candidati sindaco è al tempo stesso cosciente e succube. Solo che le cose stanno cambiando, a quanto pare, in questo gioco di (ri)posizionamenti al millimetro. Qualche giorno fa, Lorenzo Guerini, vicesegretario del Pd, prendendo Sala con lo sguardo, come una zolletta di zucchero su un cucchiaino, gli ha detto all’incirca: “Senti, forse dovresti cominciare a dirlo un po’ meno che sei di sinistra, dai retta”. E contemporaneamente pare che Massimo D’Alema faccia campagna per Parisi.

 


Stefano Parisi, candidato sindaco per il centrodestra a Milano (foto LaPresse)


 

E insomma prima gli avevano suggerito di dirlo un po’, così, per rassicurare e avvolgere l’elettorato orfano di Giuliano Pisapia (visto che fino al 2010 Sala è stato direttore generale del comune di Milano con Letizia Moratti). E lui aveva accettato di farlo, malgrado all’inizio fissasse il vuoto con un’espressione perplessa, combattuta, finché, tuttavia, a un certo punto, forse per effetto della reiterazione, non ci ha invece preso gusto. E così quell’adagio, “sono di sinistra”, ha finito con l’assumere nel suo frasario un andamento scontato, quasi meccanico, che però adesso, sondaggi alla mano, preoccupa non poco la segreteria del Pd. Dunque Guerini, che certo non trasmette messaggi senza consultarsi prima con il capo, cioè con Matteo Renzi, ha incontrato Sala, caricando la voce di prescrittiva ironia: “Dillo un po’ meno”. E il linguaggio di Sala ha insomma da farsi più affinato, pensano a largo del Nazareno, a Roma, le sue allusioni alla sinistra se non scomparire devono farsi almeno più sottili, diciamo ultraviolette. D’altra parte la competizione col gemello Parisi, questa gara milanese che li vede entrambi immersi in comprensibili complessi d’appartenenza, è serrata, incerta, sul filo: entrambi premono sullo stesso elettorato, formando in quel breve spazio politico un grappolo compatto e rantolante.

 

E forse davvero Milano, la città dove i fenomeni politici e di costume da sempre nascono e muoiono, da Mussolini a Berlusconi, da Mani pulite al Futurismo, è di nuovo il laboratorio di qualcosa. Alcuni lo chiamano partito della nazione, quel processo alchemico in cui si sciolgono la destra e la sinistra, e poi non si sa bene cosa viene fuori. Tuttavia le formule sono forse insufficienti a descrivere questo labirinto milanese in cui i due candidati sindaci si assomigliano fino allo specchiarsi l’uno nell’altro, in un gioco di equilibri precari, strategie di comunicazione, piccoli riassetti, un caos mimetico nel quale raccontano si stia infilando persino D’Alema, confezionatore di strategie buone a tutti gli usi, lui che non nasconde la sua simpatia per Parisi. Da Milano passa la sconfitta o la consacrazione del renzismo? O forse non passa niente di tutto ciò?

 

Della trama, e dell’ordito, della mossa super intelligente e segreta, D’Alema sente la nostalgia perché ne ha assaggiato il sapore, dunque ora presume di muoversi in una sorta di controrealtà o di realtà ideale nella quale la vittoria di Parisi su Sala equivale all’inizio della fine per Renzi. Così suggerisce ai suoi (pochi) interlocutori nella minoranza del Pd l’idea che Milano possa essere la breccia da cui riconquistare  il partito perduto. E allora ce lo si può immaginare, al telefono, nel suo studio, sadico, diciamo, nel disporre i suoi attrezzi di gaio falegname politico. Ma le cose stanno davvero così? O forse, che vinca Parisi o vinca Sala, gemelli d’Italia, alla fine, cambia poco?

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.