Maria Elena Boschi e Matteo Renzi in Senato, durante il voto finale sul ddl Riforme (foto LaPresse)

Accarezzare l'idea di un referendum per abrogare i cacicchi

Renzo Rosati
Altro che “pulire il mare” e “tenere in ordine i depuratori”, come Matteo Renzi consiglia alle regioni, in gran parte a guida Pd, che hanno perso la guerra delle trivelle. In ballo c’è ben altro, e lo vedremo nel referendum costituzionale di ottobre.

Roma. Altro che “pulire il mare” e “tenere in ordine i depuratori”, come Matteo Renzi consiglia alle regioni, in gran parte a guida Pd, che hanno perso la guerra delle trivelle. In ballo c’è ben altro, e lo vedremo nel referendum costituzionale di ottobre: la riforma firmata da Maria Elena Boschi – contro la quale si sta ri-armando il partitone benecomunista diversamente etico, ma anche promette vendetta e si ingrossa il fronte dei governatori, il tutto all’insegna del trasversalismo sinistra-5 stelle-Lega – la riforma dunque ridimensiona drasticamente i poteri di governatori, assessori, consiglieri e cacicchi vari, molto oltre la “clausola di supremazia” degli interessi statali rispetto a quelli locali “in caso di materie concorrenti”. Ovvero si riscrive completamente il titolo V della Costituzione, in senso inverso alle generose concessioni fatte nel 2001 dal governo dell’Ulivo. Il nuovo articolo 117 toglie infatti diritto di veto su produzione, trasporto e distribuzione dell’energia (quindi mai più No Triv), su autostrade e ferrovie ad alta velocità (basta sponsorizzazioni a futuri No Tav), porti e aeroporti d’interesse nazionale (fine dei governatori gran mediatori di piani infrastrutturali), su “disposizioni generali di governo del territorio e coordinamento della protezione civile” (altro che espianto dei vigneti toscani, o ulivi pugliesi usati come scudi anti-industria).

 

Così lo stato avrà competenza esclusiva su fisco, politiche del lavoro, previdenza sociale, ordini professionali, immigrazione, ordinamento scolastico. In pratica alle regioni resterà la tutela delle minoranze linguistiche, la pianificazione ordinaria territoriale e della mobilità locale, la programmazione dei servizi sanitari: dove i sostantivi programmazione e pianificazione non sono casuali, nel senso che gli orientamenti generali e la parola ultima spetteranno sempre allo stato; mentre i fondi non spesi torneranno al bilancio pubblico per essere redistribuiti.

 

Tutto questo fa capire perché, per dire, due governatori pd che si sono tenuti fuori dal fronte anti-trivelle come Rosario Crocetta (Sicilia) e Enrico Rossi (Toscana) già manovrano in senso antirenziano in vista del referendum costituzionale. Chi può ripagare uno come Crocetta dell’esproprio dei centri di formazione, della riscossione dei tributi (lui che aveva nominato Tonino Ingroia presidente di Riscossione Sicilia), dei fondi comunitari? E che dire di Rossi, già autocandidato alla segreteria, che ha assai pragmaticamente pilotato il raddoppio del porto di Livorno, la cessione delle acciaierie di Piombino, il piano aeroportuale, il piano paesaggistico della Toscana? E’ scontato che l’invito al no nel referendum, oltre a puntare a mandare a casa Renzi, verrà paludato dal refrain democratico della “difesa del territorio”. Il problema è che questa difesa è fatta spesso di chiacchiere, clientele, soprattutto sprechi di denaro pubblico.

 


        

Rosario Crocetta, governatore di Sicilia, ed Enrico Rossi, governatore della Toscana


 

A febbraio la Corte dei Conti, nella Relazione sulla gestione finanziaria delle regioni, ha evidenziato un deficit che nel 2014 è stato di 10 miliardi, e di 25 nel quadriennio dal 2011. E questo nonostante “l’eccezionale inizione di liquidità effettuata dallo stato nel biennio 2013-2014 con circa 20 miliardi di anticipazioni di cassa destinate al pagamento dei debiti pregressi del Sistema sanitario nazionale”. Debiti sanitari che ammontano a 25 miliardi con al top Lazio, Campania, Piemonte, Calabria, Molise, Sicilia e Puglia, e la cui ristrutturazione produce continui aumenti delle addizionali Irpef e Irap. Anche qui il primato va al Lazio con un’aggiunta del 3,33 per cento sui redditi oltre i 35 mila euro e dell’1,73 sotto. Il Piemonte stanga i ceti medi con un extra del 2,13 per cento sopra i 15 mila euro e del 3,32 sopra i 55 mila. Per non dire dell’Irap sulle imprese, alleggerita dal governo ma aumentata come una tela di Penelope da Lazio, Abruzzo, Puglia, Sicilia. Di conseguenza in sei anni le tasse locali sono cresciute del 6,1 per cento, per 7,7 miliardi. Eppure le regioni non riescono a tener dietro ai loro debiti, che non sono solo della sanità. La Corte dei Conti li stima in oltre 66 miliardi, compresi quelli verso aziende, la cui promessa restituzione non avviene secondo il ritmo di smaltimento annuo stabilito: sotto la media ci sono Molise, Calabria, Sicilia, Lombardia e Toscana. Il dissesto non è solo al Sud: la Val d’Aosta ha un buco di gestione di 53 milioni, pari a 415 euro per abitante, la provincia di Trento di 218 milioni, Bolzano di 184.

 

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Lo scandalo del Meridione lo si trova nelle pensioni assistenziali, cioè di invalidità (il 47 per cento del totale nazionale contro il 31 del Nord) e negli assegni sociali (55 per cento). Calabria, Campania, Sicilia, Sardegna hanno circa una pensione assistita ogni dieci abitanti, il quadruplo del Trentino: grazie alla sanità e agli uffici del lavoro regionalizzati. A marzo la Corte dei Conti siciliana ha poi attaccato pesantemente la giunta Crocetta sulle politiche dell’occupazione (“il tasso del 42 per cento è il più basso d’Europa”), sulla formazione professionale, sul turismo (“l’incasso dei biglietti è inferiore al solo sito di Pompei”), sui rifiuti e sull’ambiente.

 

E a proposito di ambiente, l’indice di green economy stilato nel 2015 da Fondazione Impresa, che misura 21 indicatori, rivela che Puglia, Campania, Liguria, Lazio e Sicilia sono tutte sotto la media nazionale, con un rating tra il “basso” e “molto basso”. Ma non erano le trivelle a insidiare la biodiversità (e le cozze)?