Il ministro della Giustizia Andrea Orlando (foto LaPresse)

Sostiene il ministro

Orlando: “Regole certe e garanzie per dare una risposta letale al terrore”

Andrea Orlando
Il responsabile per la Giustizia del governo risponde ai dubbi del Foglio su una procura europea “burocratica”

Il Foglio del 24 marzo, non senza qualche tributo ideologico, boccia la mia proposta di procura europea. Lo fa sotto due profili. Il primo fondamentalmente rivolto contro qualunque struttura sovranazionale inevitabilmente condannata a diventare “burocrazia”, si tratti di intelligence, di polizia e a maggior ragione di magistratura. E poi il secondo rilievo. La vicenda Abu Omar dimostrerebbe, sempre secondo il Foglio, che con i magistrati tra i piedi la lotta al terrorismo diventa addirittura più difficile. Mi ha stupito leggere questa seconda considerazione da un giornale che ha una importante tradizione di difesa dei diritti e delle garanzie.

 

Giuseppe Sottile nei giorni scorsi, solleva un’altra questione, esprimendo un giudizio sul funzionamento della nostra procura nazionale antimafia (Dna). Sostiene, infatti, che quella struttura ha finito per tradire le aspettative, non essendo riuscita a dominare i particolarismi investigativi delle singole procure. Lo stesso rischio, secondo Sottile, correrebbe la nuova Procura europea.

 

Andiamo con ordine. Coordinamento sì, ma burocrazia no, dice il Foglio. Ma chi definirebbe, persino tra i detrattori, la Cia o il sistema dei procuratori federali “burocrazia”? Senza una struttura centrale dubito ci possa essere una qualche omogeneità nelle tecniche investigative o di intelligence e soprattutto nello scambio e nella raccolta di informazioni.

 

A questo rilievo risponde in qualche modo nel suo fondo lo stesso Sottile, quando rimprovera al legislatore italiano di aver dato alla procura antimafia solo poteri di coordinamento.

 

C’è molta ideologia nel catalogare come “burocrazia” le eventuali e auspicabili strutture comuni. Anche perché in assenza di queste, sono le burocrazie nazionali a condurre il gioco, con i risultati che purtroppo conosciamo. L’idea che ci si possa rimettere in qualche modo alla buona volontà che dovrebbe sostenere un “ipotetico” coordinamento, per evitare il pericolo dei “baracconi”, non tiene conto della forma e del peso dei particolarismi nazionali nella scrittura delle regole e soprattutto nella quotidianità della loro applicazione.

 

La nostra esperienza di coordinamento nelle indagini contro fenomeni criminali viene da lontano. Quando ormai un quarto di secolo fa, su intuizione di Falcone, si decideva di coordinare le indagini di mafia, sia nell’ambito delle forze di polizia istituendo la Dia sia nell’ambito della magistratura, attraverso le Direzioni distrettuali antimafia e la Direzione nazionale antimafia. Sottolineo queste elemento perché credo sia centrale anche oggi.
Oggi come allora affrontavamo una sfida, una minaccia gravissima alle istituzioni democratiche.

 

E’ vero, quando nasceva la Direzione nazionale antimafia, alla quale nel febbraio del 2015 abbiamo conferito anche il potere di coordinamento in materia di terrorismo, le diffidenze non furono poche, così come le aspettative. Molte le diffidenze e i timori nella magistratura rispetto al rischio di interferenza e di controllo verticistico.

 

Cosi come molte furono le critiche sul versante opposto: dall’anomala collocazione ordinamentale nell’ambito della Procura generale all’impianto fondato sul coordinamento. Aspetti indicati come freno al dispiegarsi della potenzialità dell’organismo.
Si tratta di argomenti non spendibili e sovrapponibili nella vicenda della procura europea. Questa, infatti, dovrebbe interagire con ordinamenti diversi. In molti di questi, per fare solo un esempio, l’azione penale è promossa da procure più o meno direttamente emanazioni dell’esecutivo.

 

Il terrorismo jihadista ha oggi una dimensione prevalentemente sovranazionale, le indagini “territoriali” assumono un segno chiaro soltanto se un’intelligenza collocata su una scala più grande è in grado di ricostruire, di tessere fila non visibili nella scala territoriale, di rintracciare le connessioni tra le reti criminali, le vie di finanziamento, i modelli di reclutamento, le relazioni tra i network nazionali.

 

La Procura nazionale antimafia ha consentito di dare nel corso del tempo una chiave di lettura più ampia al lavoro delle procure distrettuali e, anche senza un vero e proprio ruolo gerarchico, ha contribuito a creare una rete infinitamente più efficiente  rispetto a quella che presidiava il territorio prima della sua nascita.

 

Se c’è un punto che nessuno è in grado di discutere in questo sistema è il vantaggio rappresentato da una banca dati comune che la Direzione nazionale antimafia ha implementato nel tempo e che costituisce un supporto fondamentale al lavoro delle singole procure antimafia. Se vogliamo usare, dunque, quell’esperienza, ammesso che la sua struttura sia replicabile ne varrebbe comunque la pena a fronte di un quadro  nel quale, all’interno dei confini dell’Unione (lo ripeto per i “muristi”), le polizie e gli inquirenti non sanno quello che fanno i vicini di casa, ai quali preferiscono non dare troppa confidenza!

 

Infine, la vicenda Abu Omar, a mio avviso, costituisce un argomento a supporto della mia proposta. Senza entrare nel merito, il suo esito è il frutto dell’affermazione di un principio: nessun potere pubblico, nazionale o straniero, può essere sottratto a un controllo di legittimità.

 

Se vogliamo – come noi vogliamo con forza – che intelligence, polizie e in generale apparati di sicurezza agiscano in una dimensione sovranazionale, l’unica in grado di porsi sulla stessa scala dei network del terrore, è giusto portare sulla stessa scala il potere giurisdizionale. Una minaccia terribile come quella del terrorismo si fronteggia solo con una forma altrettanto potente e inevitabilmente terribile, che è bene che sia – in qualche modo e compatibilmente alla sua funzione – sottoposta a regole certe.

 

Se facciamo la guerra al terrore senza questa accortezza rischiamo di cambiare la nostra natura. E questo significa farli vincere almeno su questo piano. Mi sembra strano spiegarlo al Foglio.

 

Andrea Orlando è ministro della Giustizia
 

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