Enrico Rossi (foto LaPresse)

Fenomenologia di Enrico Rossi, il renziano atipico

David Allegranti
Dai tempi della foto di Vasto alla presidenza della Regione Toscana. Perché il governatore è l’avversario migliore per il congresso del Pd

Roma. Di solito Matteo Renzi ama scegliersi i nemici, o persino crearseli quando non esistono, come abbiamo già spiegato sul Foglio. Matteo Salvini è perfetto perché con poco sforzo, per mera giustapposizione, chiunque lo sfidi o venga sfidato diventa subito “di sinistra” (qualunque cosa oggi voglia dire). Ed Enrico Rossi è l’avversario migliore per il congresso del Pd. Lo si capisce anche dall’atteggiamento di Renzi nei suoi confronti; il presidente del Consiglio non fa il piacere di citare gratis qualcuno, conosce bene le regole del marketing, della politica e della vanità: quando chiama per nome i giornalisti in conferenza stampa o in altre occasioni pubbliche sa che andranno in brodo di giuggiole. Stesso discorso in politica: perché dare dignità di avversario a chiunque lo attacchi, magari per farsi un po’ di pubblicità? Quando Renzi vuole ignorare qualcuno, semplicemente non ne parla; gli nega così un “selfie”, metaforicamente parlando, con lui. E quando ancora Rossi non aveva annunciato la sua candidatura, il premier lo aveva citato, mesi fa, a Porta a Porta, facendo l’elenco di tutti gli aspiranti segretari: “Ci sono tantissimi anti-Renzi: Rossi, Emiliano, Speranza, Bersani ad honorem, D’Alema che non credo che corra alle primarie, fa il filmmaker”.

 

C’è stato un periodo, ai tempi della foto di Vasto, in cui sembrava che Rossi potesse fare il capo di quell’area lì, a metà fra il manettarismo dipietrista e il fuffismo vendoliano. Poi la foto s’è sbiadita, Rossi ha avuto bisogno del sostegno renziano per non essere disarcionato dalla poltrona di governatore ed essere ricandidato, senza primarie, e quindi ha un po’ aggiustato il tiro. Anche perché la prima volta che si candidò alla Regione nel 2010, sempre senza primarie, lo fece agilmente grazie a Renzi: in un’intervista, l’allora sindaco di Firenze silurò uno degli aspiranti avversari, Federico Gelli, oggi deputato renziano, dicendo che Rossi sarebbe stato l’uomo giusto. Lui via via si è guadagnato, da sinistra, l’epiteto di “renziano” (che da quelle parti è pressoché un insulto) e come ha recentemente notato Stefano Fassina, chiedendo a Rossi di essere coerente con quanto detto in questi mesi, il presidente della Regione Toscana è “sempre con lui (Renzi, ndr): Jobs Act, scuola, Italicum e Senato, tagli alla Sanità”. Rossi, per l’appunto, rinfaccia sempre alla sinistra del Pd e non solo “posizioni troppo ferme e - dice il governatore toscano - animate da spirito di rivincita, come mi pare stia accadendo sulla riforma del Senato o come è stato sul Jobs Act. Ad ascoltare alcuni esponenti Pd pare che dalla questione del Senato elettivo passi il futuro della democrazia”.

 

[**Video_box_2**]E insomma, come dice Sun Tzu ne “L’arte della guerra”, “nell’operazione militare vittoriosa prima ci si assicura la vittoria e poi si dà battaglia. Nell’operazione militare destinata alla sconfitta prima si dà battaglia e poi si cerca la vittoria”. Prima - renzianamente - ci si cerca l’avversario, poi si dà battaglia. L’avversario in questione, Rossi, vuole distinguersi dagli altri. Non vuole fare il renziano né l’antirenziano e in questo coglie un punto interessante. L’Italia è stata attraversata da 20 anni di guerra di religione fra berlusconiani e antiberlusconiani, sostituirla con un’altra  per i prossimi venti sarebbe di scarsa crescita politico-intellettuale: “Non vorrei - dice Rossi - che dopo venti anni di automatismo Berlusconi-anti Berlusconi, ora scattasse quello Renzi-anti Renzi. Sono queste faziosità che hanno minacciato l’unità del paese, che non fanno vedere il bene comune”. Detto questo, pur senza drammatizzazioni alla Roberto Speranza, Rossi ha alcuni paletti che non vuole abbandonare: per esempio non vuole avere nulla a che fare con Denis Verdini. Ma quale ingresso in maggioranza, dice Rossi: “Dovremmo più che un congresso chiedere a Renzi parole chiare, nette. Lo dica lui che Verdini non è gradito nella maggioranza e la chiudiamo qui. Renzi dica a Verdini ‘No grazie’”. Poi si è messo a dare consigli editoriali all’Unità in crisi. “Oggi farò il mio abbonamento al quotidiano, perché non voglio che chiuda il giornale fondato da Antonio Gramsci. Un consiglio ai compagni giornalisti: meno renzismo rutilante e più realtà e sofferenza sociale del paese”. Meno Verdini, più operai.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.