E così da un cassetto tira fuori una specie di gladio romano, con impugnatura forse in corno e argento, lama d’acciaio, inciso con il nome di Bixio 

A tu per tu

Un mondo prefetto

Salvatore Merlo

Ma che cos’è l’Italia commissariata dai prefetti? Città, politica, stato. Un pomeriggio con Tronca, commissario di Roma, candidato a capo della polizia. “Lo vuole vedere il pugnale di Nino Bixio?”.

Giacca scura su cardigan scuro, pantaloni scuri e scarpe nere con fibbia, tutto comunica l’idea di una divisa, persino il nodo militare della cravatta spenta, un nodo Windsor a testa di vipera. E se non fosse per il fazzoletto bianco appena sbuffante dal taschino, o per le tre belle pipe (“non le fumo, mi annoiano”) che tiene in mostra dietro la scrivania intagliata che fu di Ernesto Nathan, e che sono evidentemente il suo dettaglio divino, si potrebbe anche avere l’impressione d’essere di fronte a un gran sacerdote laico, un prete della Repubblica (dove vive a Roma? “In una foresteria della Guardia di Finanza”). E d’altra parte è quasi da chierico della Costituzione che si esprime quest’uomo di sessantatré anni (“è la società che si deve adattare alla Carta, non la Carta alla società”), sottile e appena incurvato, mentre parla di sé, lentamente, con posa e linguaggio prudenti. “Mio padre era funzionario di polizia, mio nonno era carabiniere, il mio bisnonno nella Guardia di Finanza. Da ragazzo avrei potuto optare per un lavoro diverso, anche nel settore privato”, dice. “E chi lo sa, me ne sarebbero potute anche derivare parecchie soddisfazioni. Ma credo soddisfazioni caduche. Dopo l’università ho cercato di dare un senso diverso alla mia vita”.

 

Un’etica quasi religiosa, gli si dice allora. Al che lui fa all’incirca un balzo sulla pesante poltroncina dorata che fa parte del composito arredamento, un po’ pacchiano, del Campidoglio (“eh sì, certe cose sono davvero brutte”). Dunque corregge, il prefetto: “Etica laica”, scandisce, forse con un sottile moto di dispetto. “Non ho mai abbinato l’etica del lavoro alla fede – è cattolico? “Sì” – E nemmeno a un pensiero politico”, aggiunge. “Il funzionario dello stato risponde solo alla legge, me lo ha insegnato mio padre”. Non è sempre vero, su. “Per me lo è”. La polizia in Italia non si è sempre comportata bene, ci sono stati molti casi di abusi di potere, violenze… “La polizia è un corpo magnifico a servizio della democrazia. E deve avere come luce, sempre, il rispetto della legge e della Costituzione. E quando dico Costituzione mi riferisco ai diritti inviolabili”. Va bene, okay.

 

E così mentre i giornali scrivono che forse sarà lui il prossimo capo della polizia, o forse del Dis, il dipartimento delle informazioni per la sicurezza, cioè del coordinamento dei servizi segreti, Francesco Paolo Tronca, già prefetto di Lucca, di Brescia, e di Milano ai tempi dell’Expo, già capo dipartimento dei vigili del fuoco, e oggi commissario prefettizio della città di Roma, nume inesorabile del Campidoglio, fa esercizio di modestia. “L’ambizione è importante. Ma l’uomo deve essere capace di gestirla e dargli un senso, e intendo dire anche dei limiti”. E insomma interrogarlo mentre strizza gli occhi, senza troppo umorismo, non è facile. Non sembra conoscere sprezzatura, ma sorride con garbata parsimonia. Allora gli si dice, provocatoriamente, che nella vita, nel lavoro, nei rapporti sociali, è importante possedere il senso dell’ironia: fa squillare come un campanello mentale, un segnale d’allarme poco prima di commettere un errore fatale. “L’ironia è un bene prezioso. Dà il senso del distacco, e della distanza”, ammette con un sorriso fanciullesco e improvviso, un po’ inatteso. Ma la domanda forse non gli piace. Tuttavia, quando gli si fa notare il piccolo busto in bronzo che tiene sulla scrivania, il generale Cambronne ritratto nel momento in cui, a Waterloo, gridò spazientito: “Merde!” in faccia agli inglesi, allora il prefetto sfodera uno spirito insospettabile: “Guardi, in certe occasioni, basta fare così, basta girare Cambronne in faccia all’interlocutore”. E dunque, sorridendo, mi punta il generale addosso.

 

Di lui si dice sia l’uomo delle grandi emergenze italiane: la nevicata del 1985 a Milano, la strage di Linate, il terremoto dell’Aquila e quello dell’Emilia, il disastro ferroviario di Viareggio, il naufragio della Concordia, il declino sbracato del comune di Roma, della sua amministrazione pubblica, del suo decoro cittadino. “Quella di uomo delle emergenze è una qualificazione che parte da un luogo comune. E io detesto i luoghi comuni”, risponde. “Nel 1985, a Milano, ero responsabile della protezione civile. Erano i primi passi di questa straordinaria istituzione. Si capì che andava utilizzata la risorsa generosa del volontariato, lo stesso genere d’entusiasmo che negli anni Sessanta aveva spinto moltissime persone ad andare a Firenze durante l’alluvione, ma si capì che tutto quel volontarismo andava organizzato, preparato, strutturato, affinché fosse utile”. All’Aquila lei conobbe bene Guido Bertolaso, adesso candidato a sindaco di Roma, con la destra berlusconiana. Vincesse le elezioni, Bertolaso siederebbe alla stessa scrivania dov’è lei adesso. “E’ un bravissimo professionista della protezione civile”. Ma a L’Aquila Bertolaso si è sporcato. “Le dico soltanto questo. Io a L’Aquila ero capo dipartimento dei vigili del fuoco. E i vigili del fuoco sono ancora chiamati gli Angeli dell’Aquila”. Punto. E mentre pronuncia queste parole, il prefetto fa un gesto sott’inteso, con la testa, come dire: ho attraversato tutti i disastri, i pasticci, le tagliole delle eterne emergenze italiane, e su di me mai nessuno ha avuto nulla da ridire.

 

E allora non si può fare a meno di chiedergli se, per caso, non teme anche lui di fare la fine di tutti gli altri “salvatori della patria”, triturati, masticati e risputati da questo paese in sembianze macchiettistiche o talvolta criminali. Persino Mario Monti, che ha impedito il tracollo finanziario e l’umiliazione internazionale di questo paese, è stato poi distrutto dall’Italia. “Non sono un salvatore della patria, sono un funzionario dello stato. Lavoro con coscienza, rispetto della legge, e obbedisco. Se mi mandano, vado”. Si direbbe che si attribuisca caratteristiche da funzionario d’ante guerra, d’impronta prefascista, o da destra storica. “Sinistra storica”, precisa lui. E allora bisogna sapere che il prefetto è un accanito lettore di storia risorgimentale, è un collezionista di cimeli garibaldini. Nella stanza lunga e stretta che alle spalle dello studio del sindaco di Roma si affaccia magnificamente sui Fori Imperiali, lui ha appeso un olio su tela di Gerolamo Induno: si vedono i bersaglieri, con Garibaldi, e un barbuto ufficiale che fuma una sigaretta (“l’ho comprato per poche lire da un rigattiere, che pensava fosse un falso. E invece è un Induno originale”. Un affare. “Direi di sì”).

 

[**Video_box_2**]Poi un lampo: “Lo vuole vedere il pugnale di Nino Bixio?”.

 

E così da un cassetto, chiuso a chiave, Tronca tira fuori una specie di gladio romano, con impugnatura forse in corno e argento, lama d’acciaio, inciso con il nome di Bixio e la data di costituzione di quella Repubblica romana che il generale luogotenente di Garibaldi difese dall’assalto dei francesi. “Questo pugnale gli fu donato dalla Repubblica come segno di ringraziamento”. Poi abbassa la voce: “Una notte, che qui in Campidoglio non c’era nessuno, al termine di una settimana durissima, ho preso il pugnale e l’ho posato sul tavolo della sala delle bandiere, dove si riuniva il triumvirato. L’ho poggiato su quello stesso tavolo dove probabilmente fu firmata la Costituzione della Repubblica romana”. E il suo è un patriottismo quasi sabaudo, cisalpino, si direbbe. Preferisce Fratelli d’Italia o La canzone del Piave? “La canzone del Piave completa, e chiude, Fratelli d’Italia. E’ un omaggio all’inno di Mameli, apre alla nazione della nazione che l’inno del Piave completa. Per me non c’è stata una Prima guerra mondiale, ma una quarta guerra d’indipendenza. Mio nonno combatté sul Piave, a diciotto anni, da sottotenente. Mia madre, che è morta a giugno, teneva in un cassetto il suo diario di guerra, un libricino nel quale mio nonno descriveva quella sua vita nelle trincee. Ed erano le storie che lui raccontava anche a me bambino”.

 

Quando fu inviato a Roma dopo le dimissioni di Ignazio Marino, di Tronca si disse che arrivava il “milanese” a ripulire e civilizzare la città lazzarona. Ma in realtà il prefetto non è milanese: il nonno di Crotone trapiantato in Sicilia, il padre palermitano, alto funzionario di polizia, una vita di trasferimenti, dal nord al sud d’Italia, dalla Toscana alla nebbiosa provincia lombarda, “vivevamo a San Sepolcro, in provincia di Arezzo. Non c’era il liceo classico, e io prendevo tutte le mattine la corriera per Città di Castello”. Poi Giurisprudenza a Pisa, “feci una tesi di laurea sui ‘costituti pisani’ del 1300, gli statuti di Pisa città marinara. Dovetti studiare paleografia, assecondando l’inclinazione della mia famiglia materna, una famiglia di umanisti, professori di liceo, dantisti e latinisti. A un certo punto pensai anche di dedicarmi alla carriera accademica, ma non c’erano borse di studio, e non volevo pesare sulla famiglia. Così feci il concorso in polizia”, assecondando invece l’inclinazione della famiglia paterna (e suo figlio cosa studia, prefetto? “Giurisprudenza”).

 

“All’università, a Pisa, negli anni Settanta, ero ben conosciuto dagli ambienti della contestazione”, ricorda. “Mio padre era il dirigente dell’ufficio politico. Figurarsi. Ero il figlio dello ‘sbirro’. Ricordo vividamente il giorno in cui fu assassinato il commissario Luigi Calabresi. Mio padre lo conosceva bene, Calabresi faceva il suo stesso lavoro, era vice dirigente dell’ufficio politico di Milano. E le segnalo, cosa che certo non le sfugge, che le evidenze giudiziarie a conclusione del processo per l’omicidio Calabresi portarono all’individuazione di tre pisani”. Ovidio Bompressi, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. “Sono stati anni bruttissimi. Nella primavera del 1969 mio padre venne ferito durante dei tumulti di piazza. Mi ricordo che telefonarono, di notte, per avvertirci. Mi è capitato spesso di pensare che l’omicidio Calabresi sia stato una molla potente per il mio ingresso in polizia. E’ stata una vicenda che ho vissuto con grande impressione, immedesimandomi. Leggevo il Corriere della Sera, che è sempre stato il mio giornale, il Corriere di Walter Tobagi. Calabresi sarebbe potuto essere mio padre”. Un ragazzo di vent’anni che legge il Corriere non era certo un contestatore. “Mai stato. Mai fatto politica”. Ma avrà avuto anche lei la sua scapigliatura? “Da ragazzo tiravo di scherma”. Scapigliatura. “A Pisa facevamo tardi la sera, a chiacchierare con i compagni di università”. E insomma niente scapigliatura. Dice.

 

Per raggiungere il Campidoglio, a piedi, da piazza Venezia, si percorre una scalinata, chiamata dell’Arce capitolina, che taglia il colle e costeggia il museo del Risorgimento. Ma sui gradini di questa meraviglia si fanno incontri orridi: una fetta di pane bucata al centro, un mandarino intero ma imputridito, ciò che resta di un succo di frutta Ace, poi uno sbrindellato sacchetto di plastica bianco da supermercato. In un angolo, felice, banchetta un piccione spennacchiato. “Il problema non è solo pulire la città di continuo, cosa che stiamo facendo”, dice Tronca. “C’è un problema di educazione. Se butti un mandarino per terra non hai una cultura sufficiente a capire che non solo calpesti il senso civico, ma anche il diritto degli altri di salire una scalinata priva del residuo di succo di frutta che ha visto lei. Il lavoro dell’Ama, l’azienda dei rifiuti, in questi mesi di gestione commissariale è aumentato del 20 per cento. L’altro giorno stavo facendo una passeggiata a Campo de’ Fiori e ho avvertito un deciso cattivo odore che proveniva dalla strada, dal selciato. Allora ho chiamato il presidente dell’Ama chiedendogli la cortesia, ove già lo utilizzassero, di aumentare la quantità di disinfettante da spargere sui sampietrini. Come pure è inaccettabile la presenza dei ratti. E non soltanto nelle zone dove si accumulano rifiuti, ma sulle banchine del Tevere, che devono essere fruibili per i cittadini”.

 

E qui il prefetto abbassa un po’ il tono della voce: “Ho la sensazione che mi manchi il tempo per finire il lavoro. Ma abbiamo fatto tanto. Roma ha bisogno di vivere una sua fisiologia di buona amministrazione comunale, in modo ordinario. Io sono un commissario ‘straordinario’, devo restituire una città più facile da amministrare alla politica”. Da quando lei è in Campidoglio i romani hanno scoperto che faccia hanno i vigili urbani. Per strada erano più rari delle tigri siberiane. Hanno fama, forse ingiusta, di essere il corpo di polizia urbana più corrotto d’Italia. “A queste cose stiamo molto, molto attenti. Ma non si deve generalizzare, perché così facendo si alimentano meccanismi di trascinamento patologico, viscerale e inutile.

 

L’amministrazione pubblica romana è composta da tante persone, molte bravissime e competenti. Certo tutta la pubblica amministrazione va seguita, controllata, per evitare violazioni delle regole. Ma in parallelo è necessario valorizzare il personale. Io ho inaugurato un meccanismo di continua turnazione dei dirigenti, i ruoli apicali devono essere rinnovati di continuo. Qui ho trovato una macchina ferma, a cui andava tolto il gesso”. Ma le manca il tempo per finire il lavoro. A giugno, a Roma, si vota. “Farò tutto quello che è possibile fare nel tempo dato”.

 

Nel grande salone azzurro del Campidoglio, detto dell’arazzo, quello con il pesante tavolo rettangolare racchiuso tra il magnifico quadro seicentesco che rappresenta la fucina di Vulcano e quello che invece ritrae Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre, in questo contesto pomposo, ma intonato e dai soffitti affrescati e altissimi, sono state aggiunte, chissà quando, una quindicina di sedie moderne, che qualcuno, chissà perché, ha pensato fosse meglio far dipingere color oro. Così laccate, starebbero bene nell’appartamento di un camorrista televisivo, roba da “Peppe Braciola”, “Giggino ‘o drink”, “Ciruzzo ‘o milionario”. E forse la pulizia di Roma dovrebbe cominciare da qui dentro, da queste stanze. “Sì in effetti l’arredamento è pacchiano. Guardi là…”, e il prefetto indica, in un angolo, una strana e incongrua lampada a stelo, che almeno ha soltanto il difetto d’essere tristemente brutta. I dettagli, anche qui dentro, come per strada, comunicano una grammatica alla vaccinara. Ignazio Marino ha piazzato in mezzo allo studio del sindaco una venere romana senza testa. “Ma quello è mio”, dice Tronca, indicando il grande tappeto persiano sul quale è poggiata la scrivania del sindaco. “E’ quasi identico al tappeto che c’era sotto la scrivania del prefetto di Milano quando, da giovane funzionario, entravo in quella stanza per me così importante. Avevo sempre ammirato quel tappeto. Poi, un giorno, in un negozio, ne vidi uno del tutto simile, e mia madre, per farmi un regalo quando venni promosso vicario di Milano, me lo comprò. Me lo sono portato dovunque, questo tappeto, in giro per l’Italia, a Brescia, a Lucca, a Roma… Fin quando, un giorno, diventai prefetto di Milano. Allora entrai in quello studio che avevo sempre ammirato, ci ritrovai il tappeto che avevo sempre ammirato, ma lo scoprii consunto e bucato… al che lo sostituii con il mio. E nessuno si è mai accorto del cambio”. Finché lei non è andato via. “A quel punto ci ho rimesso quello bucato”. L’estetica conta? “Contano i simboli. Conta il decoro delle istituzioni. Io ho rimesso il vigile in casco bianco a dirigere il traffico, sulla pedana, a piazza Venezia”. Come negli anni Cinquanta, come in “Vacanze romane”. Prima di lasciare il prefetto mi accorgo che fuma il sigaro toscano. Ecco un vizio! Un segno tangibile di debolezza umana. “Ne vuole uno?”. No, grazie. E’ l’unico vizio che ha? “L’unico che posso confessare”.

 

 

 

La collana “A tu per tu” di Salvatore Merlo ha ospitato finora Ferruccio de Bortoli (19 febbraio 2014), Ezio Mauro (22 febbraio 2014), Giancarlo Leone (1° marzo 2014), Flavio Briatore (7 marzo 2014), Fedele Confalonieri (15 marzo 2014), Giovanni Minoli (29 marzo 2014), Luca di Montezemolo (3 aprile 2014), Urbano Cairo (10 maggio 2014), Claudio Lotito (2 luglio 2014), Giovanni Malagò (26 luglio 2014), Beppe Caschetto (9 ottobre 2014), Bruno Vespa (29 novembre 2014), Vincino (10 gennaio 2015), Marco Carrai (13 febbraio 2015), Ettore Bernabei (17 marzo 2015), Umberto Bossi (5 aprile 2015), Paolo Del Debbio (8 settembre 2015), Simona Ercolani (2 ottobre 2015), Raffaele Cantone (1 febbraio) e Milo Manara (18 febbraio)

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.