Lo show del totalitarismo digitale
Roma. Quando e come una sedicente democrazia digitale si trasformi in “ditta” – o se l’essere “ditta” faccia parte del gioco anche nei casi in cui ci si autoproclami democrazia digitale – è questione da oracolo, magari, ma anche no. Capita di apprendere che, come si legge sulla Stampa, i candidati a Cinque stelle alle amministrative a Roma devono firmare un “documento” che li impegna a pagare 150mila alla Grillo & Associati in caso di mancato rispetto del programma (c’è pure il “parere preventivo” dello staff sugli atti del sindaco). E in questi giorni di (ennesimo) patema d’animo a Cinque stelle, quella formula così partitica, la “libertà di coscienza” sulle unioni civili, rompe definitivamente l’illusione, l’utopia (distopia) della rete che tutto può e tutto risolve, e proprio per bocca di Beppe Grillo, dal blog di Beppe Grillo, da un server remoto della Casaleggio & Associati, con tanti saluti ai lamenti della “base” che, a forza di sentirsi dire che poteva decidere qualsiasi cosa con un clic, ci aveva addirittura creduto. E invece: invece succede non solo che il grande capocomico dica “liberi tutti”, ma che spieghi, come un leader di partito alla direzione del partito, il perché e il percome della linea. E la linea è: non abbiamo fatto votare la base, “in via del tutto straordinaria” (ma un’eccezione in questo caso è tutto), “a fronte di un tema etico che chiama in gioco anche i diritti dei bambini”. Ci prendiamo la responsabilità di rinunciare a un’ulteriore votazione sul blog, hanno scritto Grillo & Casaleggio, ricordando la prima, quella del 28 ottobre del 2014, in cui gli attivisti avevano detto sì alle unioni civili. Ma non c’era la stepchild adoption, è la giustificazione dell’ingiustificabile. Ingiustificabile agli occhi dei Cinque stelle che sono alle prese con lo spegnimento di un sogno, anche se non agli occhi del mondo dove da tempo si è capito che la democrazia diretta degli “uno vale uno” non esiste, pena l’immobilità e lo scadimento nell’assurdo o nel tragicomico, e questo nonostante tutti i grandi e piccoli difetti dei partiti liquidi, non liquidi, con primarie, senza primarie, con cinesi infiltrati e senza cinesi infiltrati, con leader dispotici e non dispotici, con minoranze esistenti, inesistenti, sbruffone o pronte all’intrigo.
E però la trasformazione della democrazia digitale a cinque stelle in “ditta” non è cosa d’oggi. “I grillini al Parlamento!”, esperimento mirabile di “democrazia diretta dal basso senza filtri e senza intermediari”, si era detto nelle centrali del pensiero unico e abbagliato dalla novità, di fronte all’attore annoiato che si faceva tribuno, urlatore di “vaffa” e reclutatore di signori Nessuno emersi dalle profondità del web, ma proprio per questo puri e valorosi: studiano, i ragazzi studiano, era il ritornello. E ben venga lo studio, per carità, ma si era capito da subito che non poteva funzionare senza la struttura, senza cioè la macchina che altrove si chiama “partito”, ma che presso il M5s partito non può mai chiamarsi, pena la perdita definitiva di identità. E il mondo guardava e vedeva gli “uno vale uno” intorcinarsi nelle infinite assemblee dove si decideva il nulla (espulsioni a parte, quelle sì certificate dal blog).
Che fare?, si domandavano alla Casaleggio Associati, mentre già le prime Quirinarie, consultazioni online per la scelta del presidente della Repubblica, nell’aprile del 2013, tenutesi in orario d’ufficio, facevano sorgere il dubbio che gli otto giorni di ritardo nel rendere noti i voti non fossero così funzionali (meglio la ditta?). Per non dire dello strano caso verificatosi a Roma nelle ore successive alla vittoria di Ignazio Marino, quando i militanti dissero “sì” on-line – sì, vogliamo fornire un nominativo di assessore a Marino – ma dal blog supremo giunse ben presto un sonoro “no”. E i militanti provarono timidamente a dire: ma non siamo una democrazia digitale diretta, noi? Niente da fare: era già tutto chiaro, anche nella situazione apparentemente contraria a quella di oggi, quando Grillo e Casaleggio, sul reato di clandestinità (ottobre 2013), sconfessarono l’emendamento di due “portavoce” proprio in nome della democrazia digitale diretta: noi non siamo come i partiti, noi consultiamo la base, e noi vi diciamo che se avessimo proposto di abolire il reato di immigrazione clandestina avremmo avuto percentuali da prefisso telefonico. Comunque prego, eccovi il blog, votate. E gli attivisti però avevano votato sì all’abolizione (sarà quel precedente a consigliare oggi ai vertici di non andare a svegliare, sulle unioni civili, il corpaccione della rete che dorme?).
[**Video_box_2**]C’è stato, sulla strada della metamorfosi in “ditta”, un fatto per il M5s non ignorabile: la nomina di un Direttorio, corpo intermedio che rende plasticamente evidente l’impossibilità di dirsi “uni uguali agli uni”. Ci sono stati tanti piccoli segnali: dalle lotte per l’uso del simbolo a livello locale, giunte fino ai gazebo del raduno di Imola, alle mini-scissioni (vedi il caso Parma, in questi giorni, con il sindaco già di suo un po’ dissidente Federico Pizzarotti che si ritrova a dover fronteggiare un “movimento” bis, clonato dall’originale ma d’opposizione). Poi c’è il caso Salerno, finora rimasto sottotraccia: c’era stato un “election day” a cinque stelle nel novembre scorso, era risultato più votato un ragazzo di 26 anni, Dante Santoro, attivista storico. E però poi era subentrato uno strano “stallo”, racconta al Foglio Santoro, con molte parole da parte dei parlamentari a cinque stelle di zona e molto movimento di gente che prima si era vista poco o niente (scrive Santoro sulla sua pagina Facebook, dove si trovano i dettagli della vicenda: “Alla prima riunione in cui si è esplicitamente parlato di candidature per le comunali ci siamo ritrovati in 100. I parlamentari, prima presenze occasionali, sono diventati guide spirituali, seduti dietro la scrivania… In pochi mesi, alcuni ‘neoacquisti’ del 5 stelle hanno iniziato a parlare da veterani, con l’obiettivo chiaro di indirizzare le sorti del gruppo…”. Morale: non si preferivano altri nomi? Fatto sta che Santoro (“altro che voto della base rispettato”, dice), si è ritrovato, dopo due mesi di stallo, a dover fare un passo indietro, per via di una norma retroattiva (“rivedere le dinamiche per le quali ero scappato da ambienti politici e partitici mi fa male…”, dice). E chissà, forse non si poteva non arrivare dove si è arrivati, con il fragoroso irrompere della realtà nel sogno autarchico del “noi non siamo un partito e non ci contaminiamo”.
festa dell'ottimismo