Graziano Delrio (foto LaPresse)

Chi sono i diversamente renziani

Salvatore Merlo
Lo descrivono circondato da una immutabile cerchia di geometrie magiche o tragiche, giglio o cerchio che sia, tampinato da camerieri, yes man, servizievoli cretini e controfigure quasi sempre rivali tra loro, ma con una caratteristica pressocché comune: parlano tutti in toscano come lui.

Roma. Lo descrivono circondato da una immutabile cerchia di geometrie magiche o tragiche, giglio o cerchio che sia, tampinato da camerieri, yes man, servizievoli cretini e controfigure quasi sempre rivali tra loro, ma con una caratteristica pressoché comune: parlano tutti in toscano come lui, come Matteo Renzi. E infatti sempre più, tra i cinquanta parlamentari che sin dall’inizio di questa legislatura stanno con lui, tra i renziani della prima ora, quelli che lo seguivano quando ancora era “Matteo” e non “il presidente”, adesso si sollevano lamenti, mugugni, fermenta un generale sentore d’impotenza e di trascendentale sconforto: le porte sempre chiuse, il filtro della grammatica fiorentina che impedisce ogni comunicazione, e poi il fastidio che i pretoriani del renzismo manifestano per le idee difformi, per le manifestazioni pur vaghe d’indipendenza e di libertà personale. Dunque Simona Bonafè, che sarebbe potuta essere tutto ma oggi è soltanto europarlamentare, in privato si agita, critica, solleva il sopracciglio, così come Matteo Richetti, come i cattolici di Alfredo Bazoli o Sergio Chiamparino, come Giorgio Gori o il sottosegretario Angelo Rughetti, il vecchio mondo Anci, i manager amici,  a cominciare da Andrea Guerra. Tutto un cosmo che per ragioni diverse, e spesso scollegate, soffre.

 

E dunque si contorcono tra avvertimenti, grida sommesse, passi indietro e critiche più o meno evidenti al “giglio” e persino, con ovvia precauzione, al grande (e permaloso) capo. Ma come Graziano Delrio, isolato ministro delle Infrastrutture un tempo “fratello maggiore di Renzi”, anche loro battono i pugni contro un muro muto. I loro colpi non producono nessuna eco. E così Bonafè chiede un’attenzione che le viene negata, mentre Delrio, che doveva essere il Gianni Letta di Renzi ma è stato sostituito da una squadra di toscani (Luca Lotti e Antonella Manzione), osserva preoccupato l’avvicinarsi di Denis Verdini, “l’affiliazione” al Pd, e pure il pericoloso dissidio che divide Renzi dalla minoranza di Bersani, di Speranza e di Cuperlo, tutta una guerra che Delrio vorrebbe evitare “per il bene di Renzi”, perché – pensa lui – “il partito della nazione è una marmellata di trasformismi”. E dunque c’è Bazoli che vede nelle unioni civili, ma anche nel silenzio sulla riforma della giustizia, il tradimento di certe premesse del renzismo. E ci sono Chiamparino e Gori che, finiti anche loro nell’ombra, si lamentano per i tagli a comuni e regioni. E c’è Guerra che ha lasciato Palazzo Chigi perché a quanto pare non riusciva a fare quello che avrebbe voluto, colpa del giglio, ancora una volta, ché la rottamazione “non arriva fino in fondo”.

 

[**Video_box_2**]E insomma ciascuno di loro esprime il paradossale rimprovero a Renzi di non essere più renziano. Un lessico, come si vede, non da traditori, ma da traditi e umiliati, da “diversamente renziani”, dice qualcuno. “Il cambiamento della Leopolda a tutt’oggi nel Pd fatica ad arrivare”, aveva detto Richetti a dicembre, con l’orgoglio ferito dell’ortodosso, in polemica violenta con i cacicchi locali benedetti dai fiorentini di Palazzo Chigi. Lasciando capire che lui, Richetti, come tutti gli altri, resterà sempre con Renzi, o perlomeno con il Renzi a immagine e somiglianza di Richetti, di Delrio, di Rughetti, di Bazoli, di Gori, di Chiamparino e di Bonafè. Un Renzi che tuttavia non è il Renzi di Luca Lotti, l’architetto di retrovia di Palazzo Chigi, l’uomo che secondo tutti loro ha la violenza dell’apostolo ma non ne ha la passione: incarna la linea, la riproduce con furia, ma senza fantasia né libertà. “Un Renzi più Renzi di Renzi”, lo descrivono, alludendo al fatto che la troppa fedeltà è in qualche modo un tradimento. E insomma intorno al presidente boy scout, ora che s’è fatto potere vero, si rilevano le tensioni, i malumori, i possibili scollamenti di corte. Vorrebbero purificare il Renzi di oggi innaffiandolo con il Renzi d’antan. Accadeva anche a Berlusconi, nel suo regime  autocratico, carismatico e un po’ padronale.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.