Denis Verdini (foto LaPresse)

Bonzi del Pd e vedove dell'enricolettismo, chi è senza Verdini scagli la prima pietra

Giuliano Ferrara
I finti tonti, ecco, fanno i finti tonti. Quando parlano di Verdini o del partito della nazione o della “essenza” del Pd, della sua natura incorrotta; quando parlano di questa legislatura con toni indignati, alla ricerca di una identità ferrigna; quando alludono con aria di storici sapienti al trasformismo come antico male italiano.

I finti tonti, ecco, fanno i finti tonti. Quando parlano di Verdini o del partito della nazione o della “essenza” del Pd, della sua natura incorrotta; quando parlano di questa legislatura con toni indignati, alla ricerca di una identità ferrigna; quando alludono con aria di storici sapienti al trasformismo come antico male italiano; quando ripetono le solite belinate sui voltagabbana, ecco, fanno invariabilmente i finti tonti. Quelli che non si ricordano come tutto è cominciato. Vogliono “spazzare via” Verdini, vogliono che non si parli di partito della nazione, odiano il trasversalismo politico incarnato da Renzi nella società italiana, chiedono sinistra, più sinistra, sempre più sinistra. Ma a chi la vogliono raccontare?

 

Questa legislatura nasce con un Pd che per il rotto della cuffia incassa il premio di maggioranza generoso del porcellum alla Camera, leadership Bersani che non aveva mai voluto cancellare quella legge poi dichiarata incostituzionale, e resta in minoranza al Senato, leadership Bersani che aveva sottovalutato la capacità di rimonta del Cav. e sopravvalutato la sua tintoria di smacchiatore. Renzi ci aveva provato alle primarie, prima delle elezioni, e rimediò una onorevole sconfitta d’apparato. Si usciva da un compromesso di Bersani con Berlusconi, che mollava la presidenza del Consiglio e lasciava che si insediasse Monti con una maggioranza di unità nazionale anticrisi chiamata Abc (Alfano Bersani Casini) che durò un anno e mezzo. Contrattavano tutti tutto e con tutti, non c’era più alcun criterio di appartenenza significativo, era il regno dei bigliettini riservati di Enrico Letta che si voleva rendere utile per le nomine al nuovo capo del governo tecnocratico, era finito il bipolarismo molto vantato e molto sabotato per fottere Berlusconi con mezzi extrapolitici, il Parlamento ondeggiava sulla scia della tecnocrazia al potere per salvare il salvabile, e fare qualcosa di utile, e intanto il trasformismo, per usare un termine tecnico che nella neolingua dei soliti finti tonti è dispregiativo, impazzava nei ministeri, nelle direzioni generali, nei rapporti politici, nelle nomine, sotto la sapiente amministrazione d’urgenza di Giorgio Napolitano.

 

Da questo inguacchio, che all’epoca non fu denunciato da alcun purista oggi finto tonto, uscì con le elezioni del 2013 il Parlamento che ancora regna. La novità fu che il Pd non solo non aveva vinto in modo limpido una maggioranza, non solo si era prostituito a Grillo ricavandone l’epiteto di “zombie”, non solo aveva fallito la ricerca scoutistica di adepti grillini dissidenti al Senato; in più non aveva eletto, né in combutta con Berlusconi né separandosene (caso Marini, caso Prodi), il capo dello stato; il pd bersaniano si era acconciato ad accogliere la proposta Berlusconi di rieleggere Napolitano e di fare un governo di unità nazionale, per il quale la lotteria decise che doveva stare al timone il numero due di Bersani, il numero due dello schieramento che avrebbe dovuto vincere e risultò politicamente ed elettoralmente sconfitto (E. Letta). Bene. Che successe allora?

 

Successe che questo schema “ultratrasformista”, sempre per usare le loro categorie puriste, per cui gli oppositori davanti agli elettori diventavano i governanti d’intesa tra loro, non resse: non resse alla condanna definitiva di Berlusconi e alla sua cacciata dal Senato, non resse alla secessione di Berlusconi dal governo con annessa scissione ministerialista di Alfano e degli altri, ma sopra tutto non resse al bid, alla scommessa, alla sfida, chiamatela come volete, del giovane Renzi. Il quale disse: datemi il partito, mi ripresento alle primarie, e lo ottenne a larghissima maggioranza perché anche i democratici (iscritti ed elettori) nel loro piccolo s’incazzano, quando vedono che tutto è inutile e che i vecchi curatori della ditta sono agenti di un clamoroso fallimento. Poi Renzi disse: datemi il governo ché Letta col cacciavite, con i suoi ritmi da digestione lenta, e con Alfano e la sua ristretta maggioranza opportunista, non ci portano da nessuna parte. E lo ottenne.

 

[**Video_box_2**]Hanno governato sereni con il numero due di Berlusconi (Alfano), poi con cinque ministri scismatici di Berlusconi, e ora protestano perché a Renzi vanno i voti dell’altro numero due di Berlusconi (Verdini) che aveva mediato apertamente, davanti a tutti, il patto fondativo di questo governo e del programma di riforme istituzionali. Sono i re dell’inciucio e ora si scandalizzano per una ordinaria e comprensibile convergenza parlamentare, fanno l’occhiolino perché tre vicepresidenze di commissione vanno in Senato a un raggruppamento di nazareni. Bisogna che se lo mettano in testa, i bonzi del Pd e le vedove dell’enricolettismo che affollano giornali e tribune dell’opinione benestante e benpensante: loro esprimono un’Italia pasticciona, fallimentare, e trasformista senza risultati, questi ragazzotti i risultati li portano, il presidente della Repubblica lo hanno saputo eleggere (anche con i voti degli avversari interni) e il loro “trasformismo”, molto ridotto rispetto a quello d’antan, è il prodotto diretto dell’eredità dei rottamati e delle loro sconfitte. Chi è senza Verdini scagli la prima pietra.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.