Beppe Grillo (foto LaPresse)

Non solo Quarto. Così muoiono all'alba i sogni grillini di essere migliori degli altri

Salvatore Curreri

I fatti di Quarto, l’emarginazione di Pizzarotti, i contrasti a Livorno, Ragusa e Gela, dimostrano quanto le semplificatorie promesse rivoluzionarie siano destinate a scontrarsi contro la dura realtà del governo delle città, a riprova di come non basti certo cambiare gli amministratori locali perché i problemi d’incanto siano risolti.

I fatti di Quarto potrebbero essere rubricati come l’ennesimo tentativo d’infiltrazione della malavita organizzata nelle amministrazioni comunali, specie quelle meridionali, qualunque sia il loro colore politico. Invece, essi meritano un supplemento di riflessione politica, perché interessano l’identità e l’organizzazione di quel partito – tale è il Movimento 5 Stelle, benché lo rinneghi - che ha puntato sull’antropologica supremazia morale dei suoi militanti e sulla logica egualitaria dell’“uno vale uno” per marcare la propria diversità dalle altre forze politiche. Ciò, non per concludere, sconsolatamente, che, alla prova dei fatti, tutti i politici, inclusi quelli che si professano “duri e puri”, sono uguali ma per dimostrare che proprio le caratteristiche genetiche di tale partito lo rendono più permeabile a tale genere di condizionamenti.

 

Su quali siano queste caratteristiche, giuristi e politologi convergono da tempo, grazie anche all’analisi serrata svolta sui documenti ufficiali: l’atto costitutivo; il Non Statuto seguito dallo Statuto; il regolamento sulla democrazia interna; i codici di comportamento degli eletti; le regole sulla proprietà e l’uso del blog di Grillo. Si tratta di un partito antisistema perché contrario non ai principi fondamentali della nostra Costituzione, ma all’intero attuale sistema politico (“la casta”) e alle sue regole di funzionamento (la democrazia rappresentativa parlamentare che, come diceva Rousseau, falsa la genuina sovranità popolare), in nome di un radicale rinnovamento della politica che permetta alla “ggente” di far valere la propria volontà direttamente, votando (però non sempre e con modalità talora opache) su tutto e su tutti, grazie alle taumaturgiche virtù del web; volontà di cui gli eletti sarebbero meri portavoce, quali “dipendenti a progetto”. Il tutto condito da un’ abbondante dose di populismo, qui inteso non come il marchio infamante dietro cui gli aristocratici della politica si trincerano quando incapaci di spiegare le loro ragioni (e qui gli esempi sarebbero molteplici: dall’euro fino all’attuale polemica sul reato d’immigrazione clandestina), ma come il voler far credere che fare politica è semplice come gestire casa propria, per cui basta essere un onesto “buon padre di famiglia” per diventare capo dello Stato (proprio come il Giuseppe Garibaldi interpretato da Bisio nel film “Benvenuto Presidente”). Rispetto al raggiungimento di tale obiettivo, l’organizzazione del movimento, e in essa la sua democraticità e la valorizzazione delle realtà locali rimane marginale, anzi pericolosa perché potrebbe mettere in discussione la leadership (e la proprietà) esercitata dal centro, sia formalmente che sostanzialmente, dai fondatori Grillo e Casaleggio.

 

[**Video_box_2**]Invece, i fatti di Quarto, ma ancor prima l’emarginazione di Pizzarotti a Parma e i forti contrasti emersi nei comuni di Livorno, Ragusa e Gela, dimostrano quanto le semplificatorie promesse rivoluzionarie siano destinate inevitabilmente a scontrarsi contro la dura realtà del governo amministrativo delle città, a riprova di come non basti certo cambiare gli amministratori locali perché i problemi (certo ereditati, ma complessi) d’incanto siano risolti. Né, tantomeno, basta l’espulsione del sindaco di Quarto, prima difesa da Grillo e ora immolata sull’altare del giustizialismo in nome della purezza del movimento, nonostante l’avviso contrario dei pentastellati locali. Occorre, invece, che, se vuole diventare adulto e proporsi come credibile alternativa politica, il Movimento risolva una volta e per tutte le contraddizioni su cui ha costruito finora la sua fortuna ma che alla lunga, come i suddetti fatti dimostrano, costituiscono anche la sua principale zavorra. Capire, cioè, che per la selezione delle candidature non basta affidarsi todo modo alla volontà degli iscritti/elettori (ah, le preferenze…!) se non esistono efficaci strumenti di selezione e controllo, alla cui mancanza non si può certo a posteriori rimediare con epurazioni e ritiri del logo da parte dei due leader e di un Direttorio loro succube; e che la politica è un’arte complessa e difficile, che richiede competenza, capacità di mediazione e pragmatismo, e non soluzioni miracolistiche in nome di una spesso pretesa volontà del popolo. Le difficoltà incontrate dalle amministrazioni grilline sono conseguenza delle caratteristiche genetiche, evidenziate all’inizio, di un movimento che, per un verso, per difendere la sua alterità politica, diffida istintivamente e perciò pretende d’ingabbiare entro schemi predefiniti realtà locali ben più complesse, anche a prezzo di lasciarle al proprio destino, come successo a Quarto; per altro verso, e in certa misura contraddittoriamente, si affida acriticamente alla volontà del web, esponendosi al rischio d’infiltrazioni da parte di chi minimamente organizzato. 

 

Se è vero che le responsabilità di governo locale sono un passaggio obbligato per un movimento che si propone di guidare il paese, lo scarso gradimento dei sindaci pentastellati (con la significativa eccezione di Pizzarotti), emerso nel recente sondaggio pubblicato su Il Sole – 24 Ore, costituiscono l’ultima riprova dei limiti congeniti all’offerta e dell’organizzazione politica di un Movimento in evidente crisi di crescita. Del resto, si sa, i sogni muoiono all’alba.

 

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