Il premier Matteo Renzi (foto LaPresse)

Ebbene sì, quello sulla riforma è un referendum sul Partito della nazione

Sergio Soave
Il referendum confermativo della riforma costituzionale (in attesa degli ultimi voti parlamentari conformi, cioé senza possibilità di modifica) è stato indicato da Matteo Renzi come la verifica della sua idoneità a governare.

Il referendum confermativo della riforma costituzionale (in attesa degli ultimi voti parlamentari conformi, cioé senza possibilità di modifica) è stato indicato da Matteo Renzi come la verifica della sua idoneità a governare. E’ un’ovvietà: persino Charles De Gaulle, con una biografia più ricca di quella del nostro presidente del Consiglio, si dimise per aver perso un referendum, peraltro su una tematica abbastanza secondaria.

 

Su questa affermazione però si sono esercitati i critici per attaccare la “personalizzazione” del referendum o, come ha di fatto sostenuto l’ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, per demonizzare il carattere da “Partito della nazione” e non da “Partito di sinistra” di questa impostazione. Se questo è stato possibile è anche perché Renzi non ha saputo o voluto dare esplicitamente, fondamentalmente, alla riforma costituzionale un carattere esclusivamente nazionale. Anche questo dovrebbe essere ovvio: in un paese democratico non si fa una Costituzione di parte, si disegnano regole del gioco valide e utili in qualsiasi quadro politico determinato dagli elettori, e non solo nella tornata immediatamente successiva. Renzi ha un po’ giocherellato a sollecitare gli istinti antipolitici, ha sottolineato aspetti secondari, come la riduzione del numero e del costo dei nuovi senatori, mentre il cuore della riforma è l’abolizione (sarebbe meglio dire l’attenuazione) dei vincoli di un bicameralismo paralizzante. E’ sul valore intrinseco della riforma che si può e si deve cercare di attivare un consenso attivo, cioè inclusivo e assolutamente estraneo a ogni interpretazione di parte o di partito. Se ci riuscirà Renzi avrà posto le basi per un Partito della nazione. Uno, non l’unico, perché le democrazie mature sono basate proprio sulla competizione tra diverse interpretazioni dell’interesse nazionale. Non sarà comunque una passeggiata: proprio per l’assenza di un quorum minimo di partecipazione, che nonostante quel che scrive Eugenio Scalfari su Repubblica è perfettamente logico appunto per dare la massima libertà di espressione all’elettorato in assenza di una maggioranza qualificata in Parlamento a sostegno della riforma, è più facile mobilitare i contrari – contrari alla riforma o al governo – che i favorevoli alla stessa.

 

Far emergere dunque il valore nazionale della riforma pare la strada maestra per mobilitare un elettorato distratto e attraversato da profonde pulsioni antipolitiche e da una specie di idiosincrasia verso i partiti. Ormai non si può fare nulla per rendere il testo più convincente, forse si potrà aprire qualche spiraglio sulla legge elettorale, che naturalmente è il complemento della riforma costituzionale, quindi conterà soprattutto il modo in cui la riforma verrà proposta e sostenuta. Spaventarsi delle polemiche che aprono un fuoco di sbarramento preventivo contro il Partito della nazione sarebbe un errore fatale.

 

[**Video_box_2**]La sinistra bocciò in un referendum analogo su una riforma costituzionale che conteneva le principali innovazioni previste anche in quella oggi è in discussione, solo perché le ripugnava ammettere che Silvio Berlusconi potesse diventare – almeno un po’ – un padre costituente. Renzi rischia di fare la stessa fine, a parti rovesciate, se si farà trascinare in un’interpretazione faziosa della riforma, invece di sostenere che essa corrisponde soltanto a un interesse nazionale di efficienza e rapidità delle istituzioni, non all’interesse immediato di un partito e di un leader di partito.

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