La statua bronzea rappresentante la Giustizia dello scultore Mimì Maria Lazzaro è posta davanti all’ingresso del Palazzo di Giustizia di Catania

Processo al giudicante

Piero Tony
Stasi, Mannino, Penati, Sollecito. Certe sentenze sono culturalmente mostruose. E non è solo colpa del sistema giudiziario, ma anche di giudici poco illuminati. La cultura giudiziaria dei nostri giorni è povera dei valori necessari a rendere credibile ed efficiente il sistema Giustizia.

Subcultura, insensibilità e ignoranza. Qualche giorno fa nel commentare sul Foglio la sentenza Stasi scrissi che l’intera vicenda – caratterizzata da una pronuncia conclusiva di condanna da parte della Cassazione, preceduta da ben due assoluzioni oltre che da una richiesta di annullamento da parte dello stesso pm di udienza – non poteva che apparire culturalmente mostruosa. E attribuivo le dirette responsabilità di tutto ciò non già ai decidenti ma da una parte al sistema processuale malato e dall’altra all’inadeguatezza della cultura giudiziaria dei nostri giorni. Perché troppo spesso approssimativa o parziale quanto a valutazione di prove/indizi e troppo spesso disarmante per quanto povera dei valori necessari a rendere credibile ed efficiente il sistema Giustizia. Povera di sensibilità giudiziaria perché di questo si tratta: conoscenza e osservanza solo formale del significante, ossia dei grafèmi delle singole norme ma – nonostante gli sforzi del legislatore nel precisare casistiche e intendimenti – non anche del loro significato più profondo. Il che vuol dire scarsa attenzione alla realtà, perché non esistono norme isolate, essendo ciascuna di esse inserita in una rete normativa di contesto costituzionale che ne decifra il senso, comprese naturalmente quelle dell’“al di là di ogni ragionevole dubbio”, della “sussistenza e adeguatezza delle esigenze cautelari” o “del concreto pericolo di fuga”. Il che vuol dire assenza/insufficienza di attenzione dialettica per opinioni e giudizi diversi dal proprio, per un diritto penale “minimo” e inclusivo, per una logica anche falsificazionista ossia controfattuale e infine per il rispetto di dignità e diritti fondamentali della persona. Questione di cultura insomma, nient’altro che di cultura. La prova? Vicende scandalose come quella di Stasi e Mannino e Carnevale e Penati e Sollecito e tante altre! E ancora le cifre da capogiro sborsate dallo stato per riparazione di ingiuste detenzioni (dal 1991 oltre 580 milioni di euro per più di 23 mila persone ingiustamente detenute in cautelare, nel solo 2014 oltre 35 milioni di euro)! Ne parlo perché sabato scorso, sempre sul Foglio, il professore Guido Vitiello ha criticato codesti miei distinguo tra liturgia e celebranti visto che sarebbe “proprio il sistema processuale a lasciare ai magistrati margini così spaventosi di discrezionalità e di arbitrio irresponsabile da magnificare anziché comprimere l’elemento soggettivo”.

 

Non posso non scriverlo! Professore Vitiello, ho la rispettosissima sensazione che stiamo dicendo la stessa cosa, che tra i “margini così spaventosi…” di cui parla Lei continui a proliferare l’anemica e appassita cultura di formalismo stantio e insensibilità giudiziaria di cui parlo io. Andiamo con ordine. Quanto al sistema processuale, ormai solo nel nostro paese qualcuno, forse, crede che l’impugnabilità di una sentenza assolutoria da parte del pm sia cosa buona e giusta. Per il resto è tutta questione di cultura – anche se anemica e appassita, professore mio. Come l’aringa che resta aringa anche dopo l’affumicatura. Mi spiego, anzi spiego a me stesso data l’ovvietà della cosa. L’acquisizione critica di cognizioni tratte da studio ed esperienza determina quell’arricchimento delle facoltà intellettuali che comunemente si chiama “cultura”. Naturalmente c’è chi si arricchisce di più e chi di meno, chi parte ciuco e chi destriere, chi si blocca e chi accelera, chi vibra appassionatamente e chi si anemizza e appassisce. La per me indimenticabile Iàgoda – una giovane rom che con le sue sole forze dal campo nomadi di Cascina Gobba era arrivata a insegnare alla Sorbona, un vero talento naturale – soleva dire che gli insegnamenti scolastici compresi quelli universitari danno solo rudimenti preparatori, l’intelaiatura destinata ad accogliere e incorniciare una cultura che solo esperienza e studio faranno sbocciare, una tela – proseguiva – tutta intessuta di sensibilità più sottili di fili di seta. Ecco cosa manca troppo spesso e anche nella magistratura, la sensibilità figlia di studio postuniversitario e di esperienza. Mancanza che a Napoli si riassume diversamente per lamentarsi di qualsiasi improprio affidamento alle mani dei guaglioni . Perché non basta mandare a memoria tutti i commi della normativa nazionale, né basta non essere cattivi, irresponsabili, disonesti.

 

Mi ripeto, non è solo questione di norme. Nei “margini così spaventosi” di cui così bene Ella tratta, occorrerebbero sensibilità e cultura e a questo mi riferivo nel commentare la sentenza Stasi. Non è questione di nomenclatura significante ma di modelli culturali idonei a individuare il significato delle parole della legge. Se fossero stati più “sensibili” e meno autoreferenziali, codesti magistrati del processo Stasi avrebbero valutato la complessiva vicenda – fin nei precordi delle opinabilità evidenziate dalle difese e dallo stesso pm di udienza, e soprattutto dai colleghi dei precedenti gradi di giudizio – avrebbero considerato il loro libero convincimento non come libertà di certezza morale, del “secondo me è così”, ma solo libertà da regole legali prestabilite come quelle del tariffario criticato da Voltaire (De la procédure criminelle et de quelques autres formes). Così fancendo, non avrebbero potuto non paralizzarsi per la non rara evidenza di margini di inconoscibilità e per quel principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio (art.533 cpp) proclamato ad ogni pie’ sospinto ma non sempre considerato. E sarebbe stata paralisi piena, per quella ragionevolezza loro imposta – nella cornice del ragionevole dubbio e in presenza di ben due sentenze di assoluzione – dall’art. 192,c. 1 cpp: “Il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”, e dall’art. 546 lett. e cpp che regola i requisiti di ogni sentenza: “La sentenza contiene… l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie”.

 

[**Video_box_2**]Con qualche sottile filo di seta in più nemmeno altri fatti – non importa se contrari o meno alla lettera della legge ma sicuramente inopportuni e incolti – si sarebbero verificati: un procuratore della Repubblica in piena funzione – e per fama persona dabbene – non avrebbe chiesto di essere nominato consulente di un governo profondamente radicato nel suo circondario né per le stesse ragioni avrebbe potuto autorizzarlo un Csm avveduto, come invece è successo. Con qualche sottile filo di seta in più non sarebbe stato possibile assistere qualche giorno fa a uno spettacolo televisivo – mi riferisco al processo di Bari sulle escort – incentrato soprattutto sullo svisceramento della privacy di persone non indagate, sulla consistenza delle loro culottes e sulla risonanza di nomi in qualche modo coinvolti (nomi che il pm di udienza, di fronte all’esitazione dei testi a pronunciarli – anche perché era ben chiaro a tutti di chi si parlava – con l’evidente orgoglio della propria inflessibilità chiedeva di pronunciare a voce alta e distintamente). E sempre di modelli culturali carenti e di insensibilità professionale si tratta quando si manda cautelarmente in carcere non il feroce bruto pericoloso per l’incolumità delle persone ma il funzionario corrotto neutralizzabile con una misura di interdizione dal lavoro. Quando si tollera la crocifissione mediatica di soggetti appena e qualche volta nemmeno indagati. Quando, nell’ambito del solito procedimento di durata irragionevole, il gip presso il tribunale di Napoli continua per mesi a vietare i colloqui – come noto rigorosamente controllati e dunque insospettabili di inquinamento probatorio – tra marito e moglie, dimenticando che il mantenimento delle relazioni familiari è essenziale per un qualsiasi futuro reinserimento. Quando un giudice di sorveglianza, come è recentemente accaduto a Venezia, nega a un condannato sotto accertamenti cardiologici la prosecuzione degli arresti domiciliari già in corso – ben ammissibile ex Dl 146/2013, cd “decreto svuota-carceri” – e per l’effetto lo fa tornare in carcere, nonostante i pareri favorevoli ai domiciliari espressi da pm, carabinieri e servizi, e lo nega in quanto – solo secondo il suo pensiero, rispettabile ma solo suo – sussisterebbe fumus di mancato ravvedimento e dunque pericolo di recidiva. Quando, con un sistema Giustizia non proprio sempre adeguatissimo, centinaia di magistrati si distraggono e gratificano per incarichi fuori-ruolo ed extragiudiziari – che sarebbero gestiti bene o forse meglio da professionisti di altre discipline quali università, avvocatura, eccetera – anziché esercitare a tempo pieno le loro funzioni istituzionali. Quando, per gli incarichi direttivi, al Csm continuano arrogantemente a imperversare le ineffabili nomine a “pacchetto politico”.

 

Nei corsi universitari di Giurisprudenza mancano cattedre… di fili sottili. A Parigi esiste da sempre l’Ecole normale supérieure e dà ottimi risultati nonostante risulti solo al trentatreesimo posto nelle graduatorie di similari europee. Da noi finalmente da qualche anno è nata la Scuola Superiore della Magistratura, ma pare vivacchi tra velenosissime polemiche – le mailing list associative sarebbero a rischio di intasamento – in quanto gestita anch’essa con le solite perniciose logiche correntizie.

 

Pessimismo della ragione ma ottimismo della volontà, egregio professore Vitiello! Dobbiamo sperare che la promessa riforma del sistema Giustizia possa affrontare e risolvere anche questi problemi.

 


 
L’ex magistrato Piero Tony ha pubblicato su questo giornale, lo scorso 15 dicembre, un commento alla sentenza che ha condannato Alberto Stasi per il delitto di Garlasco. Il 19 dicembre è tornato sullo stesso argomento, con tesi diverse, il fogliante Guido Vitiello.

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