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Il vocabolario delle frottole sulle banche

Claudio Cerasa
Il partito dell'assistenzialismo prova a cambiare la realtà delle cose spacciando investitori per risparmiatori. Sembra una semplice sfumatura, ma dietro a questa si indovina un tratto culturale decisivo nella vicenda drammatica del salvataggio delle banche popolari.

Nell’allegro e spensierato linguaggio delle frottole applicato al caso del salvataggio delle banche popolari c’è una parola quotidianamente spacciata ai lettori per riempire il cuore di compassione finanziaria. La parola utilizzata dai moralizzatori un tanto al chilo per descrivere lo status di chi si è ritrovato improvvisamente privato dei soldi investiti (segnatevi questa parola) in obbligazioni subordinate coincide con il termine “risparmiatori”. Non investitori, ma risparmiatori. Sembra una semplice sfumatura. Ma dietro la scelta di chiamare “risparmiatori”, e non “investitori”, chi ha investito i propri quattrini in obbligazioni subordinate (ad alto rischio) si indovina un tratto culturale decisivo nella vicenda drammatica del salvataggio delle banche popolari.

 

Il “risparmiatore”, nella grammatica della finanza, è come una piccola e indifesa formichina che non fa altro che mettere da parte i risparmi per affrontare delle spese future. Puoi non difendere un risparmiatore? No che non puoi. L’investitore, come è evidente, ha invece un profilo del tutto diverso e non si limita a fare la formichina ma sceglie, con piglio imprenditoriale, di correre un “rischio” e di investire i suoi soldi per provare un giorno a guadagnarne di più.

 

Il racconto di questa piccola verità risulta complicato non solo a causa della tragedia legata al pensionato suicida di Civitavecchia ma anche perché costringerebbe tutti a mettere a fuoco una storia difficile da accettare, magnificamente censurata nel copione costruito con grande abilità dai talebani del politicamente corretto. Una storia delicata in cui non si può non registrare che il partito dell’assistenzialismo statale ha contribuito all’affermazione nel nostro paese di un ossimoro ipocrita e anti imprenditoriale in cui gli investimenti sono sempre sicuri e in cui si accetta di correre un rischio solo a condizione che a pagare le conseguenze di quel rischio sia qualcun altro. Naturalmente si può discutere se gli obbligazionisti siano stati informati in modo corretto dagli sportellisti della propria banca – ed è a questo che si riferiva ieri il ministro Padoan, “servono più trasparenza e più rigore su investimenti rischiosi”. Ma per smontare la tesi che gli investitori fossero ignari del rischio che correvano investendo denari in un titolo dal rendimento molto alto, e dunque rischioso, più che un dottorato in Economia o in Finanza, è sufficiente prendere una qualsiasi nota informativa fatta firmare ai sottoscrittori di obbligazioni subordinate. Opzioni definitive sul programma Banca Etruria Obbligazioni Sub Step-Up con scadenza il 30/10/2016. Capitolo “fattori di rischio”.

 

[**Video_box_2**]“L’investimento (già sentita questa parola?, ndr) nelle obbligazioni comporta i rischi (già sentita questa parola?, ndr) propri di un investimento obbligazionario a tasso fisso… le obbligazioni sono strumenti finanziari che presentano profili di rischio/rendimento la cui valutazione richiede particolare competenza… è opportuno che gli investitori valutino attentamente se le obbligazioni costituiscono un investimento idoneo alla loro specifica situazione… il potenziale investitore (occhio alla parola, ndr) dovrebbe considerare che l’investimento nelle obbligazioni è soggetto ai rischi di seguito elencati”.

 

Chi ha buona memoria ricorderà che già nel 2012, in piena crisi finanziaria, ci fu un caso importante che riguardò una denuncia portata avanti dal comune di Milano contro quattro banche che avrebbero truffato lo stesso comune per aver venduto senza trasparenza prodotti rivelatisi tossici (i derivati). In un primo momento le banche vennero condannate. In appello furono smontate poi la tesi d’accusa e venne dimostrato (semplifichiamo) che il comune aveva le carte in regola per capire che l’investimento rischioso che aveva sottoscritto non era una truffa ma era semplicemente rischioso. “Il fatto non sussiste”. Una sentenza choc per un paese abituato a ragionare con la logica che non è il fatto ma è semplicemente il rischio che in Italia non sussiste.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.