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Libia, tempo scaduto

Mario Sechi

Se la motivazione per un intervento militare contro lo Stato islamico deve essere la tutela dell’interesse nazionale, cosa aspetta l’Italia a fare qualcosa in Libia?

 

Dov’è l’interesse nazionale dell’Italia? Chi è contrario a una partecipazione più ampia del nostro paese nella guerra in Siria e in Iraq fa questa domanda e appende agevolmente la risposta automatica del disimpegno. La Siria è russa, francese, un po’ americana, ma non nostra. Il terrorismo? Anche in questo caso il quesito è sciolto in sillogismo: Isis ha colpito Parigi non a caso e altrettanto non a caso qui da noi non c’è. Touchdown. Non importa se è vero o falso, quello che conta è che si possano dare risposte che eludono il tema politico e militare. Ma ora la linea “a salve” italiana vacilla perché lo Stato islamico ha iniziato un wargame globale e le ultime notizie sulla costruzione di un centro di comando in Libia sono l’imprevisto sulla via di Damasco.

 

Ripetiamo la domanda: dov’è l’interesse nazionale? In Libia c’è e si tocca concretamente: prima della “rivoluzione” del 2011, con il colonnello Gheddafi, il commercio italiano era al primo posto, gli investimenti dei gruppi privati oggi si sono svalutati per effetto del caos, ma esistono ancora, la presenza di Eni è strategica per la diversificazione delle risorse energetiche (leggere alla voce gas), le coste libiche sono la portaerei dei trafficanti di uomini, catapulta delle migrazioni verso l’Italia. Eccolo, l’interesse nazionale. Se l’Isis piazza un suo avamposto a Sirte, il problema è anche nostro. Mohamed al-Dayri, ministro degli Esteri del governo di Tobruk (quello riconosciuto dagli organismi internazionali) il 25 novembre scorso ha chiesto un intervento aereo per scongiurare l’avanzata dello Stato islamico, presente “a Sirte, a Bengasi, a Derna e a Sabratha”. I pozzi di petrolio sono là, a un tiro di bazooka. Rieccolo, l’interesse nazionale.

 

[**Video_box_2**]Barack Obama ieri ha assicurato un impegno maggiore degli Stati Uniti. Wonderful. Roberta Pinotti ha detto che il governo italiano “sta osservando con attenzione la Libia”. L’Italia è vigile. Ne siamo molto lieti. E poi? Dopo la rivolta di Bengasi e l’assassinio dell’ambasciatore americano Chris Stevens nel 2012, gli Stati Uniti hanno abbandonato ogni piano di ricostruzione del paese e l’addestramento delle forze di sicurezza. Alla Casa Bianca pensano che la Libia sia un problema europeo e le anime belle immaginano che la faccenda possa essere sbrigata dalla provvidenza “onusiana”. Risultato: uno Stato fallito, guerra civile, porte aperte prima al franchising e poi alla gestione diretta della ditta di macellai della bandiera nera. Non è più il momento di vigilare, ma di decidere cosa fare: i confini libici a est, a sud e a ovest sono aperti ai terroristi. Se l’Isis e i suoi alleati passano dalla Cirenaica alla Tripolitania, avremo una gang di sterminatori che guarda alle nostre coste con esplosiva attenzione. In Libia interesse nazionale e sicurezza fanno tic tac, come una bomba a orologeria: per l’Italia il tempo è già scaduto.

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