Il premier Matteo Renzi (foto LaPresse)

Paradigmi di governo

Le mosse sulla procura di Milano svelano il nuovo metodo renziano con i pm

Salvatore Merlo
Tessere e sedare. Quella precisa strategia di contenimento che si indovina dietro la ricerca di continuità con Bruti Liberati. Dicono che Matteo Renzi abbia capito che i magistrati non vanno aggrediti con inefficace fracasso, ma se possibile conquistati, influenzati, in un proficuo adattarsi tra loro di certe concordanze della vita quotidiana, del potere e dell’organizzazione giudiziaria.

Roma. E che per lui il governo della magistratura fosse materia cui dedicare un’attenzione viva e comunicabile, penetrante, s’era già capito quando il 30 settembre del 2014 ottenne che Giovanni Legnini fosse eletto dal Parlamento a vicepresidente del Csm: un sottosegretario passava da Palazzo Chigi a Palazzo dei Marescialli, dal governo del paese al governo dei giudici, e senza passaggi intermedi, camere di compensazione, spergiuri d’indipendenza. Non era mai accaduto prima. Sempre attento, informato d’ogni ondeggiamento della volontà nei complicati equilibri della politica associativa dei magistrati, dicono che Matteo Renzi, lui che Silvio Berlusconi se l’è studiato a tavolino (pregi e difetti), abbia capito che i magistrati non vanno aggrediti con inefficace fracasso, ma se possibile conquistati, influenzati, in un proficuo – democristiano? – adattarsi tra loro di certe concordanze della vita quotidiana, del potere e dell’organizzazione giudiziaria. Ogni tanto l’Anm rumoreggia – le ferie – ma in un anno e mezzo, e quasi senza strepiti, il governo di centrosinistra ha approvato, e saputo spiegare, una legge, quella sulla responsabilità civile dei magistrati, che il Cavaliere, in vent’anni, non era nemmeno riuscito a vagheggiare (tra manifestazioni al Palazzo di giustizia di Milano, leggi Cirielli e lodi Alfano).

 

E così, l’altro giorno, il ringraziamento per la sensibilità istituzionale dimostrata dalla procura di Milano nei mesi dell’Expo, quella tregua giudiziaria dopo i pirotecnici arresti di maggio 2014, quella sospensione che qualcuno contesta ma che altri considerano semplice buon senso, altro non è stata che un’esplicita richiesta di continuità da parte di Renzi con la gestione del procuratore Edmondo Bruti Liberati alla vigilia dell’avvicendamento alla guida della procura. E d’altra parte c’è davvero un interesse attivo da parte del governo nel complesso gioco d’incastri, interdizioni e valutazioni che sempre stanno a metà tra la professionalità e la politica in quel meccanismo che regola l’individuazione e la nomina dei magistrati destinati a ruoli direttivi in uffici giudiziari importanti, decisivi come la procura di Milano, un ufficio da cui è passata la storia d’Italia degli ultimi vent’anni, dal terrorismo a Mani pulite, e poi la P2, Sindona, Calvi, fino a Previti e Berlusconi. E al governo Renzi piace molto Francesco Greco, procuratore aggiunto di Milano, come pure nel quadrilatero dei palazzi romani si fa un tifo muto e attivissimo per Giovanni Melillo, ex procuratore aggiunto a Napoli, attuale capo di gabinetto del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il governo ai tempi di Matteo Renzi ha cambiato paradigma nei rapporti con le toghe, si muove con la leggerezza e il silenzio d’animale prudente: anche sulla magistratura si può esercitare una certa influenza, basta aggirare il conflitto, tessere e sedare, basta essere astuti e sornioni, saper trattenere molte cose nel gozzo, non sbandare in curva, non fare colpi di testa, o, alle volte, anche colpi di follia.

 

A Berlusconi succedeva di pronunziare frasi e di coltivare idee che sgorgavano dai dolori subiti, come il sangue sgorga da una piaga: e allora i giudici erano “matti” e la separazione delle carriere assumeva le fattezze di un appuntito ideale punitivo, mentre nel paese si scatenava la batracomachia della politica e delle toghe, come in una commedia di Aristofane, tra girotondi e manette, promesse di resistenza e leggi ad personam, pasticci mediatico-giudiziari e spasmi istituzionali, discredito per la politica e discredito per la giustizia, con tutta la politologia dello scontro tra poteri e l’abuso schiumante, peloso, delle parole “diritto” e “garantismo”, usate a sproposito da contendenti accecati. Al Cavaliere succedeva di incarnare i tormenti della giustizia, piuttosto che di esprimerli, trovava la verità in un eccesso d’inquietudine piuttosto che con l’aiuto di un metodo, in un’Italia sempre vittima degli sbalzi della terzana giudiziaria. Vent’anni di febbre, ma poi nessuna riforma dell’ordinamento, niente responsabilità civile, figurarsi una legge sulle intercettazioni come quella che sta approvando adesso il Parlamento, una norma proposta con la capacità diplomatica di comunicare anche ai magistrati l’idea che non si tratti di un bavaglio alle indagini, ma di un intervento a tutela della riservatezza di chi – non indagato – si ritrova soffocato in quell’impasto nauseante.

 

[**Video_box_2**]E mai il Cavaliere è riuscito nemmeno ad aspirare, seppur indirettamente, a poter influenzare  il meccanismo di nomina di un magistrato importante come il procuratore della Repubblica di Milano. Ambizione che Renzi coltiva esplicitamente. Gli uomini del Cavaliere, chiunque abbia avuto esperienza di Csm, non sono mai riusciti a tessere una trama politica a Palazzo dei Marescialli, a coltivare rapporti anche soltanto per prevedere e controbilanciare le mosse delle neghittose correnti della magistratura. Quella di Renzi è tutta un’altra storia, malgrado lui sia pure riuscito nell’acrobazia di deludere – e senza litigare – il reciproco amore tra sinistra e magistrati che dal 1993 è uno dei cunicoli di quel labirinto dentro il quale si è persa l’Italia.
Dunque tifa e tesse, il governo. Francesco Greco è stato notato negli ambienti di Palazzo Chigi sin dai tempi del dossier Ilva, quando contribuì, con una fantasia giuridico-finanziaria, a migliorare il decreto che doveva salvare l’acciaieria di Taranto: sua l’idea di reinvestire nell’azienda i soldi sequestrati all’estero agli ex proprietari della famiglia Riva. Giovanni Melillo è invece il più diretto collaboratore del ministro Orlando, ha lavorato al Quirinale, è conosciuto ed è apprezzato. Come Nicola Gratteri, che Renzi avrebbe voluto addirittura ministro della Giustizia. Anche se la candidatura più forte, dicono, sia quella di un uomo che Renzi non conosce, un magistrato molto defilato, mai esibizionista, elegante, già braccio destro di Bruti Liberati: Alberto Nobili. Ma in ogni caso, che sia considerato amico o meno dal governo, che sia conosciuto o sconosciuto, ogni candidato a Milano, ciascuno di quelli che hanno una chance di farcela, ha anche – magicamente – un’altra caratteristica che il Csm sembra orientato a premiare, come vorrebbe Renzi: la continuità con Bruti Liberati. Ecco fatto.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.