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L'antimafia delle suggestioni

Piero Tony
Indagini spettacolarizzate, dibattimento trasformato in inutile simulacro, diritti di difesa trascurati, abusi nella detenzione cautelare. Appunti scettici di un giudice di sinistra sul set cinematografico di Mafia Capitale – di Piero Tony

Prima di capire cos’è l’antimafia delle suggestioni serve una piccola premessa. Ho letto qualche giorno fa che gli avvocati penalisti italiani sono incavolatissimi, tanto incavolati da aver deliberato un’ennesima astensione dalle udienze a partire dal 30 novembre: un mezzo sciopero, praticamente. Più che giustamente si lamentano delle eterne disfunzioni del sistema giustizia, che ormai sono sotto gli occhi di tutti: strapotere delle indagini preliminari sul dibattimento, abuso di misure cautelari e intercettazioni, irragionevole durata del processo, invasione dei gangli istituzionali da parte di magistrati fuori ruolo, e così via. Ma si lamentano anche delle riforme che sono lì che bollono in pentola, e che a loro dire vorrebbero soprattutto intercettare il consenso popolare. Riforme ritenute pannicelli caldi improntati al ready-made e a strumenti di sommaria semplificazione: aumenti di pena non giustificati dall’offensività delle condotte, nuove e poco garantite misure patrimoniali finalizzate alla “riorganizzazione del bene” più che alla punizione del crimine (Relazione Unione camere penali, Cagliari 2015), restrizione di impugnazioni e prescrizione, estensione dell’eccezionale e poco garantito “doppio binario” processuale a nuove materie, assenza di una normativa sulla separazione delle carriere. Una tendenza, mi pare di capire, ad amministrativizzare la giurisdizione.

 

Che dire? A me pare che lo spostamento della repressione penale dalla libertà personale al patrimonio sia invece iniziativa di grande civiltà, a patto che tutte le procedure – comprese quelle di prevenzione (oggi troppo spesso decise de plano sulla sola base di spezzoni di informazioni di polizia, di notizie di reato ancora allo stato iniziale e di indagini preliminari in corso) – vengano riportate nell’ambito del giusto processo di cui al sacrosanto articolo 111 della Costituzione. E pare anche, lo si ripete ormai da anni, che sarebbe giusto e utile sia impedire alle procure di appellare le sentenze di assoluzione (a corollario di quell’“al di là di ogni ragionevole dubbio”, gridato dal primo comma dell’articolo 533 cpp) sia abolire quello sciagurato divieto di reformatio in peius, ovvero la possibilità del giudice di Appello di poter riformare la sentenza di primo grado irrogando una pena o una misura peggiore della precedente, che rende sempre e comunque irragionevole il non impugnare (si è calcolato che le due modifiche comporterebbero da sole una riduzione di almeno il 30 per cento del complessivo carico giudiziario). Ma la lettura sull’astensione forense ha improvvisamente ridestato le ugge giudiziarie che da molto tempo mi arrovellano e che, con ottimi risultati, mesi fa avevo deciso di tenere severamente a bada.

 

“Almeno per un po’ basta col parlare di indagini senza termine, di processo inesistente, di crocifissioni mediatiche, di supercriminologi e supergiornalisti tra di loro uniti per inchiodare gogne”, mi ero detto. Trascorre il tempo e io resto inflessibile.    “Mafia Capitale? Zitto tu, il procuratore è siciliano e magistrato di grande esperienza specifica!”, mi sono detto. “Ma cosa blateri?”, ha tentato di obiettare il mio angelo custode, “ha preannunciato il procedimento durante una manifestazione mediatica!”. “Ma dimentichi”, ha continuato l’angelo con un maledetto sogghigno,  “che Capitale corrotta nazione infetta c’era pari pari anche 60 anni fa, che di novità c’è solo un cecato Capitan Uncino che fa il gradasso turpiloquente nel retrobottega di un distributore di benzina!?”. “Zitto anche tu, grillo parlante dei miei stivali! Sappi che l’inchiesta pare sia nata dalle ricerche di un famoso giornalista, anche lui espertissimo e siciliano!”, gli ho urlato e l’angelo ha abbassato subito le ali. Poi la svolta con la lettura sulla protesta forense. Poi sento un dibattito televisivo su Mafia Capitale con quel sorridente giornalista che racconta delle terribili minacce telefoniche all’operatore formulate dal cecato Capitan Uncino per farsi ricollegare la linea e mi sorgono atroci dubbi. E mi rammento delle immagini del suo arresto quasi su set cinematografico, trasmesse per mesi a raffica assieme alle minacce intercettate e sottotitolate. Poi sento parlare delle videoconferenze e mi torna in mente che il nuovo codice era incentrato su quello che il legislatore chiamava “oralità, immediatezza e concentrazione assolutamente necessarie per una corretta acquisizione dibattimentale delle prove”. Poi mi dicono del processo di Bergamo per quel feroce delitto che non mi pare giusto nominare; dopo averli ottenuti dalla polizia giudiziaria (con il consenso quantomeno tacito della procura) i media avrebbero trasmesso a ripetizione video dell’indagato in ginocchio per terra al momento dell’arresto e, udite udite, un montaggio di fotogrammi raffiguranti il passaggio del furgone dell’indagato davanti alla palestra effettuato e scelto dalla stessa polizia giudiziaria per ragioni “Non analitiche ma… di comunicazione”; ancora una volta con buona pace per il divieto di pubblicazione previsto dall’articolo 114 cpp. “Zitto un corno!”, urlandomi sul timpano destro mi ha svegliato stamani l’angelo e io questa volta gli ho accarezzato le piume arruffate. Ecco perché oggi mi concedo un piccolo sfogo.

 

[**Video_box_2**]Sia chiaro, non ho la più pallida idea se quello di Bergamo e quelli di Roma siano colpevoli o innocenti in relazione a quanto loro imputato, non è questo il punto. Né se l’avessi, codesta idea, mi azzarderei a fare pronostici: mai. Né intendo soffermarmi sulle non peregrine perplessità circa la contestazione mafiosa, di cui si parla in giro: cioè che l’associazione di tipo mafioso e l’aggravante di mafia ideate dalle leggi numero 646 del 1982 e numero 203 del 1991 hanno la finalità di combattere un vero e proprio Antistato di assassini a struttura piramidale e non reticoli di bande di quartiere; che le minacce dirette sarebbero cosa diversa da un generico “clima di intimidazione”; che nella Capitale più che patrimonio intimidatorio e metodi mafiosi sarebbe stato utilizzato un secolare patrimonio di cinica furfanteria denso di corrotti corruttori e ruffiani; che la contestazione avrebbe radici nei suoi effetti processuali, sanzionatori e penitenziari… Al di là di tutto questo, credo che faccia bene alla circolazione insorgere, se non altro con un flebile “ohibò” visto che non è bello dire parolacce, di fronte a quelli che paiono spettacoli di vero e proprio traviamento. Perché tutti sanno che il così detto nuovo codice è imperniato sul giudice del dibattimento e non sulle indagini preliminari di pubblico ministero e polizia giudiziaria, come purtroppo ormai è di norma (le indagini preliminari, in teoria, senza risalto alcuno dovrebbero servire solo a decidere se sia o meno sostenibile l’accusa – art. 125 disposizioni di attuazione del cpp). Perché è obbrobrioso e illegittimo riprendere e far trasmettere a ripetizione un momento di disarmata sofferenza, di qualsiasi persona compreso un arrestato (ricordate lo sguardo di Enzo Tortora?). Perché un dibattimento in diffusa videoconferenza (modalità concepite per l’eccezionalmente pericoloso imputato-belva e non certo per altre carature criminali, in qualche caso perfino opinabili) non può che limitare pesantemente il diritto di difesa. Ma s’impone soprattutto un interrogativo principale e di struttura, non sul merito naturalmente, visto che è tutto ancora sub iudice, ma sulle modalità procedurali. Ma è davvero legittima codesta enfatizzazione mediatica delle indagini fatta in barba a precise disposizioni di legge? Ed è del tutto casuale oppure ad arte mira a creare fuorvianti suggestioni? E a opera e nell’interesse di chi?

 

Suggestioni per scenari e ruoli tanto chiari che chi dubita è colluso? Ed è accettabile il rischio che il giudicante – che, si diceva, quando il così detto nuovo codice venne introdotto, deve arrivare al giudizio “vergine” e assolutamente ignaro del contenuto del fascicolo del pubblico ministero – possa iniziare il dibattimento non da “vergine” ma, nonostante l’indubbia professionalità, pregno di tutte quelle possibili suggestioni oltre che delle notizie le più dettagliate, proprio quelle di cui non dovrebbe saper nulla? Sommessamente rispondo di no, non è legittima, non è accettabile, non è alla luce del sole ma in violazione di legge e dunque pericolosamente incontrollabile. Credo, insomma, che quando il dibattimento diventa di fatto mero simulacro e alla sua centralità prevista dalla legge si viene a sostituire la sempre più invasiva centralità di codesto tipo di indagini spettacolarizzate, che quando alla detenzione anche rieducativa dell’articolo 27 della Costituzione si sostituisce per lentezza del sistema giustizia una detenzione cautelare che notoriamente di per sé corrompe e fuorvia, credo che quando tutto ciò accade codesta prassi marcatamente inquisitoria la possa fare da padrone sovvertendo ab imo, e così tradendo, spirito e ragione del codice di rito accusatorio. Con gravissimi effetti sui diritti fondamentali, tutti, compreso quello di difesa. E credo che per tutto ciò sia da combattere a voce alta e molto severamente. Comunque… solo ai posteri, visto come vanno le cose, l’ardua sentenza. Con i migliori e sentiti auguri all’Unione camere penali italiane.

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