Lo storytelling renziano impone di non scendere troppo nel dettaglio. Siamo ancora alla sindrome armadio Ikea

Paolo Madron
Grillo, tasse, debito e deliri onirici della sinistra. Economisti e addetti ai lavori a confronto sul manifesto economico del presidente del Consiglio svelato dal Foglio

Il discorso (lungo, e scritto) di Matteo Renzi ai gruppi parlamentari del Pd è forse il primo sistematico tentativo di conciliare il suo apparato narrativo con la realtà. Un tentativo che, non a caso, viene dopo che una batteria di indicatori (in primis quello che misura la crescita) segnala un timido accenno di ripresa. “Be happy” dunque, esorta Renzi cui i numeri infondono sicurezza, proprio nel momento in cui i fuoriusciti del Pd gli rimproverano di operare con un approccio da “Happy days”. Il premier risponde facendo l’elogio dell’allegria come motore del mondo, sano antidoto all’italica cultura del piagnisteo. L’allegria è invito ad avere uno sguardo diverso, teso a cogliere l’opportunità del momento, il riferimento renziano è al mitologico Kairos. Con due avvertenze. La prima è una caparbia assunzione di merito. Le circostanze sono sì favorevoli, sostiene il premier, ma se le cose vanno meglio lo si deve all’azione riformatrice del suo governo, non agli effetti di un planetario combinato disposto (prezzi delle materie prime, bassi tassi di interesse) che gli ha consentito di ben figurare. La rivendicazione è un’arma a doppio taglio, nel senso che quando la curva dei tassi ricomincerà a salire (molto presto, visto l’exploit dell’economia americana) con relativo aumento dei costi del debito, Renzi non avrà alibi esogeni cui appellarsi. La seconda: l’affermazione della natura identitaria di sinistra del suo esecutivo che, capisco il puntiglio, mi è parsa un portato retrò inutilmente ideologico. Per il resto, lo storytelling renziano impone di non scendere troppo nel dettaglio. Il premier enfatizza la riduzione del rapporto debito/pil (non succedeva dal 2007) ben sapendo di aver comunicato a Bruxelles una sua imponente quanto improbabile riduzione (quasi 13 punti di qui al 2019), specie se si continuano a sfornare manovre finanziate per la grossa parte in deficit. E’ bravo nel dissimulare il fatto che le onerose clausole di salvaguardia (in primis l’aumento dell’Iva)  non sono state abolite ma solo rinviate. A ragione enfatizza come punti fondanti della manovra jobs act e abolizione delle tasse sulla prima casa, voluta nonostante Ue e Bankitalia gli avessero invece suggerito di intervenire sul cuneo fiscale. Nel suo discorso, punto 23, c’è un accenno al disatteso capitolo dei tagli alla spesa, segno che non c’era molto da dire oltre il riferimento all’auspicata adozione di costi standard per la Pubblica amministrazione. Cosa che, se realizzata, contribuisce solo per un quinto all’obiettivo dei 10 miliardi complessivi di tagli preventivati, ridottisi in corso d’opera a poco più di 5.  Nulla invece sulla politica industriale, su quali siano le linee guida di un sistema che sui settori chiave sembra pericolosamente rassegnato (vedi la vicenda Telecom) a un ruolo subalterno. In conclusione Renzi sciorina una delle sue metafore da entusiasta digitale, e dice di sognare un paese come l’iPhone,  bello e facile da usare tanto da rendere superfluo il libretto di istruzioni. Che al momento però, ma il premier ne sarà sicuramente consapevole, resta ancora quello di un armadio Ikea.

 

Paolo Madron è Direttore di Lettera 43

 

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