Denis Verdini (foto LaPresse)

Al lupo al lupo, al Denis al Denis

Claudio Cerasa
Spallata a Letta. Ricerca dei voti non solo a sinistra. Quel no di Napolitano. Dietro le spassose polemiche sul mini Nazareno tra il Pd e l’amico Verdini ci sono tutti i lutti non ancora elaborati dagli avversari di Renzi. Musica e plot.

La canzoncina intonata domenica scorsa sulle note di Domenico Modugno dal nostro amico Denis Verdini è deliziosa (“La maggioranza sai è come il vento / e rischia di finire in Migliavacca / quando Gotor si sveglia e poi si incazza”) prevede un finale, se possiamo azzardare, ancora inedito (“Lotti-Guerini e Giacomelli / quelli che contano sono loro / cosa faranno i quattro compagnucci non si sa / ma solo Verdini li può salvare”). E’ solo una delle performance canore intonate dal nuovo mini Nazareno di governo (vi risparmiamo quelle giocate sulle note di Enzo Jannacci). Sorridiamo, naturalmente. Così come hanno sorriso alcuni autoironici protagonisti della canzoncina. Non ci sarebbe altro da aggiungere sul Nazareno modugnano se non che, usciti fuori dalla melodia verdiniana e tornati a ragionare con le lenti della politica, c’è un altro racconto da fare. Riguarda la reazione dei tanti Gotor-che-si-svegliano-e-poi-si-incazzano davanti all’idea che, nel futuro, la maggioranza avrà a disposizione un aiutino prezioso da un pezzo di centrodestra, utile a navigare lungo il percorso di questa legislatura.

 

E’ un plot perfetto per scrivere il vero film di questa legislatura. Ovvero: le vere ragioni per cui, dopo un anno e mezzo di governo, la minoranza del Pd non riesce ancora ad accettare che ci sia un presidente del Consiglio che – in un Parlamento instabile senza un partito capace di avere i numeri per governare e con un gruppo parlamentare scelto da un segretario del Pd diverso da Renzi – è stato costretto a fare in Parlamento la stessa operazione che un leader di sinistra deve fare in campagna elettorale quando si rende conto che il suo partito non ha i numeri per vincere le elezioni e governare: semplicemente, deve cercare i voti anche lontano dal proprio partito. C’è questa insopportabile (per loro) consapevolezza nel “no” indignato e incredulo che gli amici Roberto Speranza, Pier Luigi Bersani e Miguel Gotor mettono in campo ogni volta, davanti al fatto che Renzi per andare avanti e non trasformarsi in un Enrico Letta ha bisogno di allargare la sua maggioranza e di declinare in tutte le forme possibili quello che fu il motore, la scintilla, di questo governo: il patto del Nazareno. L’accordo con Berlusconi. Il governo Renzi nasce così. Nasce con il metodo della ruspa che si oppone al metodo del cacciavite. Dietro a ogni gnè-gnè sul famoso “ahhordo” fiorentino tra i Denis e i Lotti e i Matteo non c’è solo un’indignazione brusca, e forse anche sincera, contro il trasformismo: c’è anche una questione legata ad alcuni lutti che la sinistra del Pd non è riuscita ancora a elaborare.

 

Il primo lutto è quello originario, e a suo modo è un lutto romantico: c’è una parte importante di sinistra, quella a trazione bersaniana – quella immortalata, a proposito di canzoncine, sul tetto del Nazareno nel febbraio 2013 e che cantava allegra e spensierata “lo smacchiamo lo smacchiamo” – che ancora non si capacita di come sia stato possibile, due anni fa, non aver avuto da Giorgio Napolitano la chance di formare con Grillo, Di Maio, Civati e Casaleggio un formidabile “governo del cambiamento”, guidato dall’allora candidato premier e segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Dramma inspiegabile, e giù testate contro i muri. Il secondo lutto, meno confessabile, è legato al fatto che nel plot della legislatura c’è ancora chi considera un tradimento assoluto un processo politico che invece è quasi naturale: un ex vicesegretario del Pd arrivato alla guida di un governo a trazione Pd grazie a meriti propri, ma grazie soprattutto a un’assenza di guida nel Pd, che viene sostituito a Palazzo Chigi nel momento in cui il Pd sceglie alle primarie il suo nuovo leader. Dramma inspiegabile, e dunque ancora testate nei muri. Il terzo grande lutto non elaborato che si indovina dietro la melodia delle proteste della minoranza Pd – al Denis, al Denis! – è ancora più complicato da ammettere, ma è forse quello che segna la grande differenza culturale tra il partito “a chilometro zero” della vecchia Ditta e il partito “ogm”, ovvero geneticamente modificato, a guida renziana. Si tratta di un problema speculare rispetto a quello che vi fu nel 2013, quando Bersani si intestardì nel voler fare un governo solo ed esclusivamente con i cugini di Casaleggio. Potremmo metterla così: nel momento in cui si ha la cognizione che la sinistra non è maggioranza, è accettabile oppure no uscire dal proprio perimetro e allargare la base ora elettorale, e ora parlamentare? Sintesi efficace di Arturo Parisi: “E’ meglio perdersi che perdere o è meglio perdere che perdersi?”. In fondo, è qui che si annusa un tratto interessante e machiavellico del renzismo: intravedere un traguardo e raggiungerlo, anche a costo di perdere le coordinate tradizionali, anche a costo di rubare temi e voti (e parlamentari) agli avversari di sempre.

 

Il tempo dirà se la meccanica renziana funzionerà. Ma intanto le riforme vengono approvate, la legge costituzionale che in molti descrivevano come sicura disfatta è a un passo dall’essere approvata in seconda lettura e la fragilità dei nemici di Renzi oggi, se vogliamo, sta tutta in una piccola storia dove c’entra sempre la riforma costituzionale. Si diceva: aiuto, dramma, questa riforma è il male, se non si prendono provvedimenti urgenti, definitivi, seri, clamorosi e se non si trasforma il Senato da non elettivo in elettivo si rischia l’emergenza democratica, la deriva autoritaria, il ritorno del fascismo. Dopo di che, la minoranza Pd si è guardata intorno, ha cercato un consenso che non ha trovato e alla fine ha accettato di votare una “nuova” riforma sostanzialmente identica a quella precedente, tranne che per un piccolo comma che rimanda alla promessa di una legge che un giorno forse si farà per rendere “quasi” elettivo il Senato. Wow. Il film di questa legislatura in fondo è tutto qui. E’ nel non volersi rassegnare alla mutazione genetica. E’ nel non voler accettare il fatto che passare dal cacciavite alla ruspa non è indolore. E il lutto non elaborato, e le testate al muro, è anche per questo che suonano così: al lupo al lupo, al Denis al Denis.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.