Matteo Renzi con Pietro Grasso (foto LaPresse)

Renzi-Grasso. Game, set, match

Mario Sechi
Scontro sulla riforma del Senato. Tutte le tessere del mosaico conducevano al ring e Renzi oggi ha deciso di giocare il suo numero migliore: lasciare da parte il jab e provare a spezzare il gioco di gambe dell’avversario con un gancio - di Mario Sechi

Sono sovrane le Camere o lo scettro è in mano al presidente del Senato? Conta quello che decide il Parlamento o l’umore della seconda carica dello Stato? I segnali di uno scontro istituzionale c’erano tutti: le parole di Pietro Grasso che alla festa dell’Unità lanciava un altolà sulla maggioranza che c’è sempre stata ma poteva anche non esserci, la risposta stizzita (e postdatata) a una frase di Renzi stampata (e subito smentita) dai giornali sul Senato da trasformare in “museo”, l’asticella delle richieste del Pd che di giorno in giorno si alzava in maniera direttamente proporzionale alle ipotesi di vie di fuga parlamentare aperte da Grasso.

 

Tutte le tessere del mosaico conducevano al ring e Renzi oggi ha deciso di giocare il suo numero migliore: lasciare da parte il jab e provare a spezzare il gioco di gambe dell’avversario con un gancio: “Pare che il presidente del Senato, Pietro Grasso, possa aprire alla modifica di una norma approvata in copia conforme da Camera e Senato. Se questo accadrà, credo si tratti di un fatto inedito, e credo che occorrerà una riunione comune di Camera e Senato". Renzi scartavetra questa frase sui taccuini dei cronisti durante l’appuntamento chiave della giornata – la direzione del Pd – e lo fa ben sapendo di aprire, senza più vedo e non vedo – il primo scontro istituzionale della sua èra. Lo fa alla sua maniera, colpendo e poi ammorbidendo, ma con una fermezza che testimonia quanto sia importante questo passaggio parlamentare.

 

Finora il premier aveva giostrato con abilità e astuzia tra Quirinale, Montecitorio e Palazzo Madama, ma la pausa d’agosto non aveva portato a un reale cessate il fuoco e da un po’ di tempo il “triangolo” Mattarella-Grasso-Boldrini s’era ristretto, lasciando spazi di esternazione tutt’altro che improvvisati su temi eccentrici rispetto alla linea del governo.

 

Visto lo scenario e saggiati i numeri, Renzi ha deciso che è giunto il momento di tornare a fissare i paletti: lui governa, lui ha la maggioranza, lui ha presentato un programma sulla riforma del Senato e lui vuole condurre la partita fino in fondo, senza fregare i suoi elettori su una questione non formale ma sostanziale. La riforma del Senato ha molti problemi (era meglio abolirlo del tutto) e l’elezione dei 95 nuovi senatori lasciata alle Regioni e agli enti locali apre spazi di intermediazione tra coloro che hanno fatto del suk locale un’arte. Ma qui la partita non è più tecnica – la battaglia sulla modifica dell’articolo 2 – è tutta politica, è un terreno dove c’è in gioco la leadership nel partito e la guida del governo. Per questo Renzi ha alzato l’intensità del suo intervento in direzione. Le parole del segretario del Pd sono una risposta a quanti nel piccolo establishment italiano hanno cominciato a fare pressioni sul governo perché si arrivi a un accordo al ribasso.

 

La boa di segnalazione più evidente era stamattina in prima pagina sul Corriere della Sera, dove un editoriale del direttore, Luciano Fontana, suggeriva a Renzi di posare il tomahawk e cedere il campo di battaglia alla minoranza Pd e a Grasso. Il succo della faccenda è tutto nella conclusione dell’articolo: “Le sue richieste sono il taglio delle tasse, l'occupazione, la modernizzazione dello Stato, la lotta alla corruzione e la fine degli sprechi pubblici. Non certo la battaglia finale sul Senato. C' è il tempo per ‘cambiare verso’, per occuparsi delle vere priorità e votare una riforma costituzionale all' altezza di una moderna democrazia”. Suggerire al premier di lasciar perdere è un fatto curioso. Qualcuno potrebbe obiettare: è buon senso. Sicuri?

 

[**Video_box_2**]Cedere il campo a un compromesso pasticciato (e già la riforma ha i suoi problemi così com’è) non sarebbe la scelta di un leader, ma di una mezza tacca che tira a campare. La leadership di Renzi si basa proprio sulla sua capacità di strappare, la sua “rupture” è quella di trascinare le forze riluttanti verso un campo nuovo, il suo disegno – bello o brutto – non coincide con le liturgie dell’ancien regime che si risolvono inesorabilmente nell’italico immobilismo. L’elezione diretta dei senatori sarebbe un tradimento dei principi della riforma, questo è il punto chiave. Renzi sente puzza di bruciato in anticipo e con astuzia preannuncia la mossa: una discussione generale sulla riforma, i suoi cardini, i suoi esiti con il sottotesto dell’equilibrio – e la leale collaborazione – tra l’esecutivo, il Parlamento e soprattutto i presidenti delle Camere. Non sarebbe una convocazione congiunta delle Camere (non si può fare, non è prevista dalla Costituzione) ma il segretario del Pd può chiedere di convocare i gruppi del suo partito, informalmente le commissioni congiunte e anche la conferenza dei capigruppo. Se il presidente del Senato riapre la discussione sull’articolo 2, non siamo di fronte a un passaggio indolore ed è bene discutere. A questo punto tutti si chiedono: cosa farà Mattarella? L’uomo potrebbe dare lezioni di prudenza a Oxford, ma non ci sono dubbi che se la situazione precipita, dovrà contribuire a trovare una soluzione. E’ come una partita a tennis nel torneo di Wimbledon: la palla sta schizzando velocissima sull’erba, vince chi ha rapidità, resistenza e varietà di colpi. Game. Set. Match.