Sul regno onirico della giustizia

Guido Vitiello
Alcuni casi recenti e disparati, casi che si aggiungono a una lunga sequela di altri più antichi o meno visibili, sembrano indicare che l’incertezza del diritto è ormai alle nostre spalle, e siamo entrati nel regno onirico e fiabesco della pura aleatorietà.

Alcuni casi recenti e disparati (il garbuglio dell’Ilva, le nebbie dell’affaire Crocetta, i pasticci nell’applicazione della Severino, il “grande scaricabarile istituzionale” – formula di Oscar Giannino – di qualche vicenda prefettizia, il quarantennale ritardo della giustizia per la strage di Brescia), casi che si aggiungono a una lunga sequela di altri più antichi o meno visibili, sembrano indicare che l’incertezza del diritto è ormai alle nostre spalle, e siamo entrati nel regno onirico e fiabesco della pura aleatorietà. Regno onirico, perché in esso diventa sempre più difficile connettere secondo logica le cause e gli effetti, i delitti e le pene; e regno fiabesco, perché la sottomissione della giustizia ai capricci del caso suscita nobili reminiscenze letterarie, da Rabelais a Borges. Ad aggravare le cose, in Italia, c’è che tutto questo risuona con un modo di pensare e di sentire radicato, e aiuta a radicarlo ancora più a fondo: alludo a un’idea fatalistica della giustizia (e ancor più dell’ingiustizia) assimilata al destino, alla buona o alla cattiva sorte. Ma anche per questo è possibile evocare qualche memoria romanzesca, e cogliere l’occasione per un invito alla lettura, o alla rilettura.

 

“Figurati che lui credeva di prendere il sopravvento su di me, battendo il pugno su un libretto che aveva sempre tra le mani. ‘Cosa ci avete in quel libro così importante’, gli domandai, ‘i numeri del lotto?’. ‘Qui ci sono gli articoli e i paragrafi’, egli mi spiegò”. Così Luca Sabatini rievoca l’incontro con il suo giudice accusatore ne “Il segreto di Luca”, romanzo che Ignazio Silone pubblicò nel 1956. I numeri del lotto non saranno i dadi del giudice rabelaisiano, ma anche qui giustizia e fortuna fanno una cosa sola. “Il segreto di Luca” è un romanzo su un errore giudiziario, genere poco frequentato malgrado il molto lodato e poco imitato modello manzoniano. Luca ritorna al suo paese, Cisterna dei Marsi, dopo quarant’anni di carcere: in punto di morte il colpevole ha confessato, e per lui è arrivata la grazia. Un politico, Andrea Cipriani, s’interessa del caso e interroga la gente del luogo. “‘Se Luca è innocente’, domandai a Teresa, ‘perché l’hanno condannato?’. ‘Non gli è riuscito di sfuggire al suo destino’, ella mi rispose. Quella parola di destino dava all’ingiustizia un senso tremendo: essa diventava in un certo senso naturale. Poiché non potevo ammettere la malvagità e neanche la malafede di mia madre, del parroco, del maestro di scuola, cominciai a pensare che l’ingiustizia potesse non dipendere affatto dalle buone o cattive disposizioni degli uomini. La crudeltà era come il cattivo tempo”.
Ma qualcosa di più crudele attende chi, pur scagionato, torna tra i suoi. Dove l’ingiustizia è una variante della malasorte, l’uomo che ne è colpito finisce per confondersi con lo jettatore, che occorre evitare con ogni scongiuro. La vecchia domestica del prete dove Luca si è stabilito fugge via: “Anche lei… Cos’ha da rimproverargli?”. “Evidentemente, d’aver passato la vita all’ergastolo”. La zia di Andrea non vuole che il graziato metta piede in casa: "‘Zia’, cercò di spiegare Andrea ‘tu forse non lo sai, ma il pover’uomo era innocente’. ‘Innocente o meno, egli è stato all’ergastolo. Andrea, tu vorresti che un tale individuo…". Peggio del processo all’untore, è il processo stesso che trasforma in untore chi lo subisce.

 

[**Video_box_2**]Questo può accadere quando il diritto si fa così aleatorio da apparire come una divinità capricciosa. Ne avvertiamo un’eco, sbadatamente, tutte le volte che qualcuno ripete quella formula agghiacciante: la giustizia deve fare il suo corso.

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