Angela Merkel con Matteo Renzo (foto LaPresse)

Sforare il deficit. Un piano per Renzi

Enrico Rossi
“Ha ragione il Foglio. Il presidente del Consiglio ha le carte giuste per imporre sul tavolo dell’Europa uno scambio equo: flessibilità vera in cambio di riforme. Occorre un piano organico di intervento per la riduzione delle tasse, la ripresa degli investimenti e la creazione di lavoro”, scrive il governatore toscano.

La romantica rivolta di Atene e il realistico Eurosummit di Bruxelles hanno confermato ancora una volta che l’Europa, criticata, odiata e pensata in negativo, è ancora una comunità di destino (una “gabbia d’acciaio” direbbe Weber) dentro cui ritrovare il senso migliore della storia del Novecento e lo slancio per il futuro. Si dovrà ragionare sulle basi del disegno e delle aspirazioni comunitarie che non possono che essere l’intreccio tra passione e ragione, tra sogno e realtà, ma anche comprendere senza infingimenti che, come ha detto Prodi, corriamo il rischio che il nuovo secolo: “Distrugga il frutto migliore del secolo precedente”.

 

Molti commentatori hanno notato che il tratto dominante di questa contesa estenuante sui debiti sovrani è stato ed è il cortocircuito tra storie e passioni nazionali e interesse europeo. Le promesse elettorali di Tsipras e l’unità delle correnti di Syriza da un lato e l’impianto di austerità tedesco come punto di tenuta tra le rivalità interne alla Cdu dall’altro. La rinazionalizzazione della politica sta persino inibendo, come osservava ieri il New York Times, gli aspiranti candidati alla moneta unica tra i restanti dell’Europa a 28. I polacchi, ad esempio, pur fedeli fiancheggiatori di Schäuble al pari degli stati satellite del Baltico, hanno iniziato a vagheggiare un sempre più marcato diniego all’adesione alla moneta unica. Le elezioni d’autunno in Spagna e Portogallo s’annunciano come una pialla velenosa pronta a smussare ancora il sud Europa e la sua residuale vocazione europeistica. Un tempo l’eurogruppo era il culmine del processo europeo. Oggi, soprattutto dai paesi dell’allargamento a est, esso è percepito come un circolo elitario e pericoloso, così come la moneta unica: una scelta che se compiuta diviene irrevocabile. Eppure il paradosso è che la sola moneta, per ora, fonda e tiene assieme l’Unione, dando forma allo spazio della più importante politica comune di cui disponiamo. E’ dunque qui dentro che dobbiamo esprimere capacità riformatrice ed espansiva e porre le basi per un’Europa sociale. Nell’ultimo Consiglio d’Europa di giugno la delegazione italiana guidata da Renzi, Gozi e Padoan ha presentato un documento programmatico rivolto all’integrazione della politica monetaria mediante stabilizzatori fiscali e sociali. In particolare, mediante la costituzione di un fondo comune per il contrasto alla disoccupazione. Un’idea simile a quella che era stata avanzata nella scorsa commissione dall’ex Commissario László Andor, che provò a prospettare un “Unemployment Insurance Scheme”, un fondo assicurativo d’assistenza per chi ha perso il lavoro. I disoccupati in Europa sono ben 25 milioni, il volto umano e sofferente della recessione, rispetto ai quali il populismo multiforme di destra e sinistra altro non è che il reagente politico. La forma egemonica della costruzione del consenso dentro uno schema nazionalistico, fondato sulla paura, sulla chiusura conservatrice nei confini nazionali. D’altronde la rinazionalizzazione della politica, sin dal fallimento dei referendum costituzionali del 2005 in Francia e Olanda è stata la lunga incubazione di questo processo, cui si è innestata la scure della crisi finanziaria e dei debiti sovrani. La recessione ha così dato vita a fenomeni di decrescita e impoverimento di natura ciclica, cui è necessario contrapporre politiche anticicliche di sostegno alla domanda aggregata di beni e servizi. Per questo obiettivo il Qe di Draghi e il piano Juncker sono parziali e incompleti. Occorre un piano organico di intervento per la riduzione delle tasse, la ripresa degli investimenti e per la creazione di lavoro.

 

[**Video_box_2**] Durante le mie recenti missioni a Bruxelles per conto del Comitato delle regioni ogni sforzo, mio e di tanti altri amministratori locali, è orientato all’ottenimento della “golden rule”. Lo scorporo della quota di cofinanziamento regionale e nazionale dei fondi strutturali. Per la sola Toscana varrebbe 70 milioni all’anno per i sette anni del settennato 2014-2020 e per l’Italia potrebbe consentire di usare subito 3-4 miliardi già nella prossima manovra finanziaria. Il crollo degli investimenti ha cifre spaventose. L’Europa dal 2008 ha perso 2.800 miliardi. L’Italia 600, la Toscana 40. Ogni sforzo per tornare ai livelli precedenti alla recessione sarà senz’altro encomiabile, ma non potrà “asciugare le lacrime versate”. Il capitale sociale divorato dalla crisi e dal mancato effetto di moltiplicazione, dinamismo e innovazione che quegli investimenti avrebbero iniettato nella società. In Italia abbiamo perso 1 milione di posti di lavoro. E il tasso di disoccupazione è passato dal 6 per cento del 2008 al 12, 4 per cento attuale. Renzi ha chiarito che il prossimo obiettivo del negoziato italiano con Bruxelles resta quello di reperire risorse necessarie per far ripartire la crescita. D’altro canto è noto a tutti che senza la crescita non sarà mai possibile ripagare il debito e gli interessi maturati che ormai da oltre tre anni consumano e prosciugano l’avanzo primario senza alcun margine per ulteriori investimenti e per la riduzione delle tasse. L’Europa per salvarsi attende un grande piano d’investimenti, un grande piano per il lavoro e l’attrazione di investitori privati. Pur nella tempesta, a fronte dei drammatici fatti di Atene, i venti sono favorevoli per l’Italia, ammesso che Renzi sia in grado di sfruttarli. Il premier, che è anche il leader di uno dei principali partiti progressisti d’Europa, ha davanti l’occasione propizia di avanzare le linee d’una nuova agenda socialista, in grado di rianimare il socialismo europeo; rinsecchito dall’avarizia nazionalistica e dal germanesimo miope dei socialdemocratici tedeschi, che si è affacciato all’appuntamento con la storia come un ronzino slombato e assetato dinnanzi a una traversata nel deserto. Possiamo ancora farcela, non tutto è perduto, per questo serve lo slancio dell’Italia e l’iniziativa esplicita e l’energia di Renzi. Tra ottobre e marzo c’è un appuntamento importante, la legge di stabilità. Come ha detto il direttore Cerasa, Renzi dovrebbe sfruttare questa convergenza con i governi dell’Europa centrale per richiedere una flessibilità nell’applicazione del patto di stabilità, in cambio delle riforme strutturali in corso (giustizia, Costituzione, lavoro, Pubblica amministrazione). Così del resto hanno fatto la Francia e la Spagna. Potremmo richiedere una flessibilità del 2 per cento nel rapporto tra deficit e pil, che ci consentirebbe di spendere 30 miliardi intervenendo sulle tasse, prima di tutto riducendo l’iva, che strozza e penalizza i consumi, aumentata di ben 16 miliardi negli ultimi anni, e rilanciando gli investimenti in infrastrutture, materiali e immateriali, in ricerca e in ammortizzatori sociali. Il premier ha detto di voler tornare al Renzi ‘uno’, quello della rottamazione; ma il fatto è che ora si deve rottamare in Europa e che qui si “parrà la sua nobilitate” di leader del paese e nel socialismo europeo. E’ su questo punto che la sinistra interna deve lanciare la sfida, garantendo il sostegno alle riforme. Se Renzi riuscirà a far questo gli sforzi fatti nei mesi precedenti ritroverebbero un senso e una ratio. In assenza di una prospettiva del genere invece il tramonto s’annuncia per tutti. Per il Pd, per il governo e soprattutto per il paese.

 

Enrico Rossi è governatore della Toscana