Una manifestazione pro Tsipras in Italia (foto LaPresse)

Cari Tsiprioti, ricordate la storia (fallimentare) del sud Italia

Piercamillo Falasca

Vale anche per la Grecia: più spesa pubblica in cambio di pace sociale crea una triste dipendenza - di Piercamillo Falasca

Dal 1861 l’Italia è un’unione politica e monetaria. La lira sostituì una pletora di valute e conii diffusi tra gli stati pre-unitari. Fin da quell’anno e sempre nel corso della sua storia fino a oggi, l’Italia non è mai stata una “area monetaria ottimale”, perché le sue regioni sono sempre state molto diverse tra loro, per reddito, sviluppo, produttività, competitività e finanche cultura. Ancora oggi, a guardare i fondamentali economici, c’è tra Germania e Grecia un differenziale appena superiore a quello che c’è tra centro nord e sud Italia. Senza il costante e massiccio trasferimento di risorse fiscali da Nord a Sud, oltre ovviamente all’inesistenza di meccanismi di “Mezzogiornexit”, con molte probabilità il Sud della nostra penisola non avrebbe retto né la lira, né l’euro.

 

In percentuale al pil regionale, nel 2013 la cosiddetta “spesa statale regionalizzata” (cioè la spesa dello stato centrale per territorio di destinazione, al netto degli interessi sul debito e della spesa non riconducibile a nessuna regione) è stata tra il 20 e il 28 per cento circa nelle regioni meridionali e insulari, tra l’8 e il 18 per cento nelle regioni a statuto ordinario del Centro-Nord. Il residuo fiscale, cioè la differenza tra le entrate che la Pubblica amministrazione preleva da un determinato territorio e le risorse che vi vengono spese, valeva nel 2012 35 miliardi per la Lombardia (ed era molto di più prima della crisi), 15 miliardi per il Veneto, 14 miliardi per l’Emilia Romagna. Succede il contrario per il Sud: la Sicilia ha avuto un “surplus” di 12 miliardi, la Campania di 8, la Calabria di 6, la Puglia e la Sardegna di 5. Sono decenni che, in una forma o nell’altra, il Centro-Nord finanzia al Sud la sua “partecipazione” alla moneta unica, prima quella italiana e poi quella europea.

 

Questa è la fotografia dell’esistente italiano, ma per molti versi è anche il quadro che tanti vorrebbero applicare all’Europa intera. Quando s’invoca la fine dell’austerità e si chiede “un’altra Europa” possibile e solidale, in pratica si propone di trasformare l’Unione europea in una grande Italia, con la Germania nel ruolo della Lombardia, la Grecia in quello della Calabria e l’Italia (se va bene) nei panni della Puglia. Le iperboli retoriche si sprecano – la dignità dei popoli, i richiami all’antichità, lo sprezzo per i freddi numeri e i perfidi bancari – ma al fondo la questione è semplice: Alexis Tsipras e i suoi seguaci continentali si comportano come da sempre fanno generazioni di politici meridionali italiani; vogliono essere assistiti dal Nord, chiedono soldi promettendo in cambio non riforme, ma pace sociale.

 

Non abbiamo noi meridionali imparato la lezione della storia? L’assistenzialismo crea dipendenza, abbatte l’imprenditorialità, trasforma il cittadino in suddito e inquina l’essenza stessa della democrazia.

 

La spesa pubblica di cui abbiamo sommerso il Mezzogiorno dopo il secondo dopoguerra ha avuto gli stessi effetti di una droga: all’euforia dei primi decenni (assunzioni nel pubblico impiego, pensioni facili, piani infrastrutturali ultra-keynesiani) è subentrata la depressione economica, culturale e morale; appena i rubinetti hanno iniziato a erogare meno acqua, l’emigrazione dal Sud al resto del paese è ripresa e quel po’ di crescita si è arrestata, perché non era endogena. La globalizzazione prima e la Grande recessione poi hanno trovato il Mezzogiorno italiano totalmente impreparato. Se, come ha fatto lo scorso maggio l’Economist, guardiamo al periodo 2007-2014 tenendo distinte le “due Italie”, racconteremmo di un Nord Italia quasi (ripeto: quasi) teutonico e di un Sud greculo.

 

[**Video_box_2**]Ideologia terrona vs. pragmatismo merkeliano

 

Vogliamo davvero che in futuro la Grecia sia per l’Europa ciò che la Magna Grecia è per l’Italia? Non basta lo spirito europeista o la retorica delle radici greco-romane-giudaico-cristiane e del destino comune per convincere il contribuente tedesco e olandese a diventare finanziatore netto e sempiterno di una famiglia para-statale greca (o spagnola o italiana). Sono queste le premesse perché l’Europa ritrovi smalto e dinamismo nella competizione globale? Proprio no.

 

Se avessero davvero a cuore il destino della Grecia, più che la propria ideologia “terrona” e marxista, Tsipras e Syriza rinuncerebbero a quell’atteggiamento da gradassi e accetterebbero l’approccio pragmatico-merkeliano “do ut des”, un po’ di tagli alla spesa, un po’ di soldi dall’Europa. Nel frattempo, proverebbero a rendere l’economia greca più produttiva e attrattiva per gli investimenti esteri. Se non vogliono la porta è quella, si è scritto su questo quotidiano. Con nervi saldi e buone leadership, il progetto dell’Unione potrebbe addirittura risultare rafforzato dalla Grexit. Potrebbe per esempio accelerare l’adesione alla moneta unica della Polonia, con i suoi 40 milioni di abitanti e la sua economia dinamica.

 

Post scriptum: riprendiamo a occuparci del Mezzogiorno d’Italia, con spirito cavouriano.

 

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