Luigi Brugnaro esulta per la vittoria al ballottaggio per il Comune di Venezia (foto LaPresse)

Intervista con il sindaco

Impolitico, pragmatico, nazarenico. E' il modello Brugnaro offerto al Cav.

Salvatore Merlo
L’outsider che ha sbancato Venezia ama il Jobs Act, tifa Nazareno e voterebbe per Passera (Milano) e Marchini (Roma).

Roma. Renzi lo ha iscritto al partito dei renziani, mentre Berlusconi pare lo consideri l’espressione geometrica della vittoria, un modello che si può replicare anche altrove. “E io sarei davvero contento se a Roma si candidasse Alfio Marchini e a Milano Corrado Passera. Bisogna cercare le persone migliori, la politica come professione non funziona più”, dice lui, Luigi Brugnaro, 53 anni, l’imprenditore che ha battuto Felice Casson e domenica scorsa è diventato il primo sindaco non di sinistra che Venezia abbia avuto negli ultimi venticinque anni. Contano le persone, dice lui, non i partiti. “In Veneto la Lega si è fermata al 17 per cento. Tutto il resto dei voti lo ha preso Luca Zaia, che è diventato governatore”. E insomma conta il candidato, come a Venezia, dove la lista di Brugnaro ha preso il 20 per cento, mentre Forza Italia si è fermata al 3. “Nel 50 per cento dei voti che ha preso Zaia alle regionali, in quella enormità di consenso, ci sono anche i voti della sinistra”. I partiti non servono? “Sono molto debitore alla generosità di Forza Italia, che si è fatta un po’ da parte”. Ma il sistema che piace al sindaco di Venezia è quello americano: comitati elettorali, leadership contendibile, finestre apertissime. “L’Italia ha bisogno di una politica forte, composta da gente che sappia ‘fare’, che conosca anche la tecnica, che sappia cos’è il mondo del lavoro, che abbia un’idea delle spaventose sfide che il mercato globalizzato impone a un paese come il nostro. Altrimenti vengono fuori politici deboli, interessati soltanto alla rielezione, fragili giunchi che si affidano ai grandi burocrati dello stato. E così finisce che a governare davvero è la burocrazia. Una disgrazia. Io non mi considero un professionista della politica. Finita questa esperienza tornerò al mio lavoro”. Lo dicono tutti. “Ma io lo dico sul serio”.

 

Berlusconi selezionava la sua classe dirigente con i casting. E Brugnaro, che pure è antropologicamente l’anti casting, dice che “se i casting li avesse fatti davvero Berlusconi sarebbe stato meglio. Ma non li faceva lui”. E le primarie? “Le primarie ci hanno dato Renzi. Ma a Renzi le primarie hanno dato una serie di candidati che sono l’opposto della sua filosofia. Fatte come le fa il Pd, le primarie si possono condizionare com’è accaduto qua a Venezia. Mille imbrogli. Andrebbero regolate per legge, come in America. Allora sì”. Ma Brugnaro è più renziano o più berlusconiano? “Io sono per fare le riforme. E penso che il patto del Nazareno fosse una buona idea. Renzi si prese i fischi per aver accolto Berlusconi. Ma l’Italia ha bisogno di trasversalità, in politica e nell’imprenditoria. Dobbiamo imparare a fare sistema”. Ecco, per esempio: lei lo avrebbe votato il Jobs Act? “Al volo”.

 

Continua Brugnaro: “In Italia abbiamo l’Expo in corso. E io voglio dare una mano a Pisapia, non me ne importa che lui stia a sinistra, bisogna collaborare tutti perché la gente che dall’estero in questi mesi viene a Milano abbia una buona impressione della nostra agricoltura, della nostra industria, del nostro cibo, delle nostre infrastrutture”. L’Expo viene raccontato come un grande spreco, uno scandalo da tribunale. “Ci sono cose che mi fanno arrabbiare in questo paese. L’Expo è un successo di pubblico: e va detto. Ma prendiamo il Mose, che è un altro esempio. Il Mose è una grandissima opera d’ingegneria. Di altissimo livello. Non è soltanto gli scandali, di cui si occuperà giustamente la magistratura”. E talvolta Brugnaro sembra un po’ Renzi, un po’ Berlusconi e un po’ Montezemolo, ma solo più frenetico nel parlare.

 

In sintesi: lei dice che ci vuole un atteggiamento più ottimista. “Parlo di ottimismo della realtà. La Ferrari non me la sono inventata io. C’è. I marchi del lusso non sono fantasia. Esistono. Il problema è che non sappiamo difendere i nostri punti di forza. Molte cose le stiamo persino vendendo. Lei provi a fare shopping delle grandi imprese in Germania. Non gliele fanno comprare. E sa perché? Perché fanno sistema. C’è una spaventosa capacità di collaborare, un’integrazione incredibile, nell’imprenditoria come nella politica. Dobbiamo fare così anche in Italia. E anche per questo dico che il patto del Nazareno non era affatto male”.

 

Ogni tanto sembra che Berlusconi oscilli, come se fosse tentato – se non altro per ragioni tattiche – dal sostegno al governo, pur di non andare alle elezioni anticipate. “Le elezioni anticipate sarebbero un bel problema. Qua ci vogliono le riforme, prima”. E allora cosa pensa quando vede le migrazioni parlamentari, il senatore Mario Mauro che lascia la maggioranza dove stava fino a un minuto prima per passare all’opposizione, o quando s’ingrossa il Gruppo misto? “Roba vecchia. Paludosa. Roba che deve sparire”. Anche Renato Brunetta, suo sostenitore a Venezia, è uno mica tanto collaborativo. “Mettiamola così: io sono molto d’accordo con la riforma del Senato, e penso pure che si dovrebbe fare di più, e rafforzare poi di conseguenza anche i poteri del presidente della Repubblica. Questo paese ha bisogno che le forze politiche decidano di andare d’accordo per il bene dell’Italia. Il Jobs Act, per esempio, è stato importantissimo e giusto. E’ stata una riforma coerente con i piccoli passi che erano stati fatti negli ultimi anni in tema di mercato del lavoro: prima con Tiziano Treu e Massimo D’Antona; e poi con Maurizio Sacconi e Marco Biagi. Biagi e D’Antona hanno pagato con la vita. Si tratta d’interventi necessari, chiunque non sia un forsennato lo sa. Anche nel sindacato”. Nella Cgil? “Nella Cisl, nella Uil, e persino tra i Cobas”.

 

[**Video_box_2**]La riforma della scuola l’avrebbe votata? “Non mi sembra un gran successo. E non sono nemmeno un esperto della materia. Ma a me la parola riforma piace. Quando ero al liceo, a sedici anni, manifestavo perché volevo i laboratori di lingua, quelli d’informatica, quelli di chimica. Protestavo perché volevo modernità e strumenti. Il talento si insegna nelle scuole e si insegna con i mezzi adeguati. Poi però quando si parla di riforme questo paese spesso entra in fibrillazione, si agita”. E perché? “Perché c’è il partito del ‘No’, il partito trasversale della conservazione a ogni costo, quello dei professionisti della politica, della poltrona e del sindacato. Quelli che qui a Venezia, per fortuna, abbiamo sconfitto. Quelli che impediscono letteralmente che in Italia si faccia, per esempio, dell’architettura moderna”. E lei è laureato in Architettura. “E le dico una cosa: Renzo Piano a Londra fa lo Shard. Gli ingesi riescono a inserire la modernità anche nel contesto dei loro palazzi più antichi e storici. Qui in Italia Piano fa pochissimo, quasi niente. Ci sarà un motivo se non facciamo una bella architettura moderna, e contemporaneamente Pompei crolla. Guardi, viviamo un momento di emergenza. L’Italia ha bisogno di darsi una mossa. Siamo solo 56 milioni di persone e siamo calati in un contesto di competizione internazionale che non fa sconti. Abbiamo un patrimonio di cultura, storia, capacità tecniche e industriali che non va buttato. L’Italia va messa nelle condizioni di correre”. E per farlo ci vuole un’altra politica. “Ci vuole della gente che viene dal mondo del lavoro”. Lo diceva anche Berlusconi nel ’94, non è un’intuizione freschissima. “Sì, ma adesso potrebbe essere l’ultima chiamata”.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.