Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini (foto LaPresse)

La compagnia dello sgranocchiamento

Salvatore Merlo
C’è Angelino Alfano che ancora non ha deciso cosa fare, c’è Renato Schifani che tira verso destra (ma prima tirava un po’ verso sinistra), e c’è infine Maurizio Lupi che ieri, alla riunione del gruppo parlamentare di Area popolare, ha spiegato ai suoi deputati d’essere preoccupato per un’intervista di Matteo Salvini.

Roma. C’è Angelino Alfano che ancora non ha deciso cosa fare, c’è Renato Schifani che tira verso destra (ma prima tirava un po’ verso sinistra), e c’è infine Maurizio Lupi che ieri, alla riunione del gruppo parlamentare di Area popolare, ha spiegato ai suoi deputati d’essere preoccupato per un’intervista di Matteo Salvini, quella con la quale il capo della Lega ha di nuovo sbattuto la porta in faccia ai centristri. E per questo – ha detto Lupi ai suoi – “adesso bisogna dare una risposta tattica” e cioè far un po’ finta di tirare verso sinistra (ma soltanto per poi negoziare meglio con la destra). E non si preoccupi il lettore se non ha capito molto, perché la faccenda è opportunisticamente confusa, e gli attori sul proscenio sono maschere la cui oratoria e le cui strategie sono sempre una congiura tra la parola e l’azione ai danni dell’intendimento. Straordinari per i lacci che sanno tendere, per le invenzioni quasi miracolose con le quali riescono a farsi largo nel folto della politica e superare tutte le difficoltà che anche un vero esploratore della savana stenta ancora a risolvere, i centristi dalle urne vuote e dai seggi pieni non da oggi sono capaci di solido concubinaggio, febbrili spostamenti e ginnica disinvoltura.

 

Così Nunzia De Girolamo è già praticamente tornata dal Cavaliere, mandata avanti da Lupi e da Schifani, a tastare, come si dice, il terreno, mentre loro, il gatto e la volpe del Pinocchio Alfano, hanno ripreso a parlare con quel Raffaele Fitto che di Berlusconi è ancora un interessato avversario. E con il principe del Tavoliere adesso si incontrano, pranzano, si telefonano, sognano di allargare insieme a lui la pattuglia di questo centro che si (ri)offre alla destra, ma che pure, se l’operazione dovesse andare male, ancora guarda a quel governo Renzi che ha pur sempre bisogno di voti nel periclitante Senato da cui dovrà passare la decisiva riforma costituzionale. Ed è infatti per questo che mercoledì, Mario Mauro, il più ginnasticato ed elastico di tutti, quel senatore che alle regionali era alleato con il Pd in Puglia, con Forza Italia in Campania e con Tosi nel Veneto, ha abbandonato la maggioranza renziana, i suoi colleghi Alfano, Lupi e Schifani, e si è rimesso “al centro”, cioè in quel non luogo politico che per tutti loro è condanna e ossessione ombelicale in un mondo che intanto va avanti con gli estremi. Mauro, che già come un tordo sulle siepi aveva zampettato da Berlusconi a Monti, da Monti a Letta, da Letta a Renzi, voleva semplicemente anticipare Lupi e alzare così il prezzo del suo personale ritorno alla casella originaria, quella di Arcore (o in caso a quella di Renzi, vecchia regola: uscire per entrare, dimettersi per reimmetersi).

 

[**Video_box_2**] E insomma si fanno anche concorrenza tra loro, e tutti coltivano quell’intelligenza dello sgranocchiamento, del restare sempre a galla, di cui i neodemocristiani della Seconda Repubblica, quelli come Pier Ferdinando Casini (che manco a dirlo è della partita), sono impareggiabili maestri, uomini le cui ambizioni non sono state minimamente scolorite dalle frustrazioni (tre gli eletti di Ncd in sette regioni), dai fallimenti e dalle amarezze, sempre capaci di centrifugare le mancate vittorie, come quando a febbraio tentarono d’impedire l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale ma poi si trovarono – oplà – a votarlo anche loro, e con l’improbabile sorriso di Alfano, che diceva, “finalmente il presidente è uno dei nostri”.

 

E dunque De Girolamo vuole Salvini, Quagliariello solo Berlusconi, altri invece sognano Renzi, ma la posizione di ciascuno è sempre soggetta a un’acrobazia dell’ultimo momento, a una capriola e un capovolgimento, tanto che le riunioni nello studio di Alfano, al Viminale, vengono raccontate ai giornalisti come il turbinìo inebriante di una giostra. E in questo torrido mormorare di frasi sotterranee, in questo rullare di tamburelli della folcloristica “Area popolare” c’è l’ennesima commedia all’italiana, l’eco caricaturale della doppiezza democristiana, scomparsa ma non ancora morta, eterna guarnizione del Parlamento e di ogni legislatura, compresa quella del rottamatore Renzi, che rende tanto più forti i centristi, dunque indispensabili, quanto il Pd s’indebolisce nel fragile Senato delle scissioni e delle riforme irrinunciabili.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.