Matteo Orfini e Matteo Renzi giocano alla Playstation (foto LaPresse)

Prima di tutto il partito

Proteggere il renzismo da Renzi, nasce così il patto della Playstation

Salvatore Merlo
Orfini, Orlando e altri non più giovani turchi alle prese con gli eccessi di una leadership irrinunciabile.

Roma. C’è stato un momento in cui si sono passati l’un l’altro un libricino di Franco Cassano che s’intitola “Senza il vento della storia. La sinistra nell’èra del cambiamento”. Andrea Orlando segnava le pagine piegandone gli angoli, Matteo Orfini usava dei post-it, Maurizio Martina la penna biro, così pure Enzo Amendola, Stefano Esposito e molti altri nel partito e in Parlamento, nel governo e nelle sezioni. E insomma i quaranta-cinquantenni cresciuti nel Pci-Pds-Ds-Pd studiavano Renzi, e dunque se stessi, nelle parole di Cassano, perché come dice il sociologo che fu comunista, e oggi deputato del Pd, “una sinistra capace di comprendere e accettare Renzi sarebbe anche capace di combatterne gli eccessi, le intemperanze e gli slittamenti”. Così Orfini, forata la membrana della reciproca diffidenza, adesso si fa fotografare mentre gioca alla Playstation con l’alieno fiorentino di Palazzo Chigi, che è il marketing di Filippo Sensi, lo spin doctor, sì, cioè l’immagine del distacco e della normalità nel corso della notte elettorale, ma è anche il segno di un’alleanza dei giovani post comunisti con il rottamatore, quel rapporto che Orlando ha spiegato così, ieri, sul Corriere, rivendicando pure un’autonomia e un profilo indipendente della sinistra interna al Pd: “La vittoria di Renzi alle primarie, e la sconfitta delle altre ipotesi, compresa quella che sostenevo io, è incontrovertibile”. Ovvero, come ha detto Martina, nello stesso giorno, al Messaggero: “Si può stare anche nella minoranza del partito senza essere antagonisti su ogni cosa”. E il loro, nei confronti di Renzi, è un codice, o un galateo, dell’amore avveduto: una iniziazione alla galanteria controllata, contabilizzata, se non proprio all’amore profittevole, per ciascuno, anche per il presidente del Consiglio, nelle ore in cui si attorcigliano voci di complotto, di nuovi e improbabili ribaltoni, di Senato trasformato in camera di conflitto cambogiano. Spiega infatti Esposito: “Renzi un giorno lo si potrà anche sfidare alle primarie, ma non certo inseguendo il codino di Podemos come fa Civati. Né restando a metà del guado come fa Speranza, o sognando la purezza di Cuperlo e la rivincita di Fassina. E nemmeno pensando, come fa Bersani, che Renzi in fondo sia una parentesi e che poi tutto tornerà come prima. Niente tornerà come prima. E meno male. Perché non veniamo certo da una stagione di sfolgoranti successi della sinistra. Quelli che hanno rappresentato i disastri, e le mancate vittorie del Pd, adesso sono mossi dal livore, cercano di fare lo sgambetto all’usurpatore. Ma non serve a niente”.

 

E tutt’intorno al trono di Renzi è iniziata una meccanica di scomposizione, decomposizione e ricomposizione del mondo che fu comunista, tra antitesi, contraddizioni, amletismi, in un intreccio sinfonico di toni: tra i vecchi rottamati, impegnati a sgranare il rosario delle ingiustizie subite, o marinati nel rancore, e poi i meticolosi contestatori come Fassina, o come Alfredo D’Attorre, e ancora i garbati solitari come Cuperlo, o gli smarriti e un po’ afoni come Speranza, e poi infine gli Orfini e gli Orlando, i giovani turchi e gli ex allievi di Bersani, quelli che provenendo da vecchia scuola comunista si muovono con sicurezza di volpi consumate nell’arte, e dunque stanno dentro, con Renzi, per contare e influenzare, e sempre si muovono nei cunicoli che ancora collegano il partito eterno: il muso sottile per iniziative sottili, la coda provvida d’esperienza. “Al Pd non serve il tafazzismo, ma nemmeno il pensiero unico”, ha detto Martina.

 

E insomma da una parte c’è un contrappunto di malinconie e violenze, di eroi sconfitti o falliti, ma indomabili come D’Alema, o di una sinistra che drammaticamente pulsa, impreca, sospira, rumoreggia, corre, provoca, esplode, che cerca la sua identità nei modelli della contestazione straniera, in Tsipras o in Podemos, tutto un groviglio di lamenti che portano all’affiorare strapotente di una subcoscienza politica che si potrebbe riassumere così: tutto tranne Renzi. Dall’altra parte c’è invece la maschera di Orfini e di Orlando, ma anche quella di Martina, una sinistra che in cuor suo a Renzi ancora rimprovera una certa politica grossezza, certe fanfaronate, un certo egoismo o egotismo un po’ da gallinaccio, ma che pure esprime il senso d’ufficio di chi si sente interprete ed erede di una tradizione che si rinnova e sopravvive ai leader del momento, “con disciplina comunista”, scherza – ma neanche troppo – Stefano Esposito.

 

[**Video_box_2**]E “il partito”, a sentirli parlare, è infatti per loro speranza e religiosità collettiva, quasi senso orfico del mistero e della trascendenza nel gran cuore del Pd che fu Pci. Secondo alcuni vecchi e saggi osservatori, interni al partito e al Palazzo, “c’è molto opportunismo. E anche una certa tendenza alla subalternità”. Ma chissà. Il vantaggio di questa convivenza, di questo patto che da domenica notte qualcuno chiama “della Playstation”, sembra infatti reciproco, tanto per i giovani post comunisti quanto per il giovane premier. La fitta ragnatela del lavoro di anni accanto a D’Alema e Bersani, i due vecchi di cui ciascuno di loro è discepolo rinnegato, hanno portato tanto Orfini quanto Orlando e Martina a conoscere meccanismi e affinare astuzie, e a stringere rapporti con tutti nel partito, compresi quei potenti (e non renziani) che oggi governano le regioni e che si chiamano Rossi e Marini, ma anche Emiliano. E così, senza troppo snobismo, loro offrono, richiesti, i loro preziosi servizi a Renzi – che con la sua classe dirigente fiorentina ha talvolta problemi – leader di turno ma non eterno di un partito, questo sì, che secondo loro, e non soltanto per loro, non può che essere eterno. Accompagnano dunque il rottamatore, ma senza lo zelo dei servizievoli cretini, pronti a chiudere per sempre con la sinistra tendenza Podemos (da loro detta “Perdemos”) e pure con la burocratizzata fronda di Speranza, “sia chiaro”, dice Orfini, “se una parte del Pd dovesse far mancare i voti al governo si va alle elezioni”.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.