Matteo Renzi tra Gianni Cuperlo e Giuseppe Civati (foto LaPresse)

Si allontanarono alla spicciolata

Alessandro Giuli
Il Pd renziano e l’inconsistenza strategica dei suoi transfughi solitari. In principio fu Cofferati, poi l’indossatore Civati, domani forse Fassina, ma i bersaniani restano: sono loro a perdere i pezzi, non il Principe.

Si allontanarono alla spicciolata dal Partito democratico, sicché di loro rimase poco più che un ricordo. Rischia di finire così, con un coro isolato di prefiche, stonato e senza gloria, la fronda disordinata dell’apparato socialdem nei confronti di Matteo Renzi. Manca un disegno, manca un obiettivo concertato, troppi rancori personali e diffidenze reciproche. L’addio di Pippo Civati, per dire, era stato talmente pavesato negli ultimi due anni che alla fine l’abbiamo registrato tutti con freddezza notarile (ieri, sulla Stampa, l’eccellente Sergio Soave ha professionalmente giustiziato l’essenza narcisistica e un po’ piccina della rivolta civatiana, illuminata da canoni più estetici che politici). Prima era stato il turno di Sergio Cofferati, ma anche nel suo caso il rumore di sottofondo rinviava sopra tutto al malanimo del vinto nelle primarie liguri, prima ancora che a una sedizione motivata dalla linea della nuova classe dirigente piddina. Presto, dicono, sarà la volta del tormentato Stefano Fassina, i cui strumenti teorici sono troppo robusti per essere ridotti a un calcolo di bottega.

 

Ma è proprio il calcolo a difettare, in questo dannunzianesimo rovesciato (“vado verso la morte politica”) che sta permeando l’arcipelago degli anti renziani. Non s’indovina la strategia dietro una tattica che finora si è limitata al sabotaggio inconcludente del principato fiorentino; il che, fra gli eredi del togliattismo, è poco meno che un delitto di lesa memoria e intelligenza. E Gianni Cuperlo? E, più ancora, Pier Luigi Bersani? A giudicare dall’intervista concessa ieri al Manifesto dal sodale Miguel Gotor, quel poco di organizzato che esiste nell’area del dissenso sta attraversando un dormiveglia amletico. Ma il risveglio è lì che attende al varco della ragion pratica, e non ha un volto conciliante. Interrogato sulla possibilità che anche lui possa seguire gli altri compagni della minoranza in procinto di abbandonare il partito, Gotor risponde: “No, sono convinto che soprattutto nel nuovo sistema che si va realizzando sia più utile una sinistra riformista dentro il Partito democratico. E che sia più utile restando nel Pd per opporsi a ciò che il Pd sta diventando”. Dal che si può dedurre che non è Renzi a perdere i pezzi in uscita dal Pd, è l’autoproclamata minoranza riformista a non saper trovare né una sua compattezza interna né una prospettiva esterna. Vagolano dispersi senza meta. Mentre la sinistra-sinistra all’opposizione di Renzi – fra tziprioti di complemento, forcaioli, landinisti e gentildonne pentite come Barbara Spinelli – somiglia sempre più a un serraglio ambulante senza un domatore, l’indicibile seduzione di una Linke all’italiana giace nel ripostiglio dell’impossibile, come un fossile illusorio spolverato di tanto in tanto da una Cgil in rotta malmostosa.

 

Resta ancora un altro equivoco, e che equivoco, in questa galleria del disfacimento goscista: i nostalgici ulivisti. Di Romano Prodi si favoleggia a intermittenza, e con opposte finalità ora ottative ora allarmistiche, che sia sempre sull’orlo del pronunciamiento militar contro Renzi. Ma non c’è truppa per gatti morti (politicamente), a meno di voler accreditare un forte potere di condizionamento extraparlamentare al prof. bolognese e al suo avatar fuori tempo massimo, Enrico Letta. Non penso si possa farlo, non senza ridersi addosso. Nei loro casi l’insuccesso non è neppure dietro l’angolo, è già alle spalle e proietta la sua ombra su un crepuscolo inoltrato.

 

Gli oppositori inconsolabili si allontanarono dunque alla spicciolata, da Renzi e da un mondo che li stava storicizzando in una nota a piè di pagina.

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