Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (foto LaPresse)

Dietro il rapporto patologico degli italiani con il potere

Giuliano Ferrara
A noi non piace essere governati. Punto. Il renzismo visto con la lente della destra ber-lu-sco-nia-na. Appunti.

In genere non faccio premesse. In particolare non avanzo titoli, non intreccio filastrocche di scuse non richieste. Mi fido della capacità di giudizio dei lettori, come della mia, e un poco non mi fido. Non li ho mai eletti a padroni di me o del mio rancido mestiere, mi piacciono autonomi e anche un po’ estranei, e a me piace essere autonomo e anche un po’ estraneo a intimità retoriche grottesche con il pubblico, tipiche di certo giornalismo che vende e si vende.

 

Premessa. Non sono renziano. Non potrei per età, per vicenda personale, per appartenenza amicale e ultraventennale, temeraria quanto si voglia, date le presenti circostanze, alla destra berlusconiana (piace la parola provocatoria? ber-lu-sco-nia-na). E per origini comuniste superate in un anticomunismo politico e ideologico non saccente, spero, ma mai rinnegate nel senso di una formazione culturale e, anche qui, di una appartenenza della gioventù. Non ho fatto il boy scout, tra Venezia e Firenze scelgo sempre Firenze, ma parlo della città d’arte e di Dante e Machiavelli, per Matteo c’è tempo. Ho scritto un piccolo e inutile pamphlet per ricordare il tenore paradossale, esistenzial-politologico, chiacchierone e vacuo dei mie paragoni: Renzi è da sinistra un’anomalia, come Berlusconi, è il suo legato stilistico al paese, il decisionismo è il comune problema-chiave della Repubblica almeno dai tempi di Craxi: analogie, similitudini, evidenti raccordi, anche risibili ma evidenti. Non sono nemmeno in ansia, figuriamoci poi, in ansia per il governo: se la caveranno, hanno l’età giusta, quello poi è fiorentino, cioè furbo, e gli avversari sono un po’ fuori di testa, come dice Laura Cesaretti si presentano come il partito dei rancori personali, non tutti, quasi tutti. L’economia reale è diversa da quella che è generata dai segni del ciclo? Andrà tutto maluccio? Sarà una ghiotta occasione per sindacati e varie opposizioni politiche e sociali, arriverà l’orgasmo dei gufi, degli enricolettiani, dei prodiani oltranzisti, alla disintermediazione tracotante subentrerà la consolante concertazione, alla contemporaneità insolente il genuino passatismo? Non è questo il mio problema, anche se non me lo auguro, ovviamente. Vada come deve andare. Sapete come la penso. Il debito è abbastanza grande per badare a se stesso, come diceva Reagan. E’ sostenibile, a patto che si faccia quel che dice la Bce, che ne sa più della Camusso e di Landini, anche dei modi per creare ricchezza e lavoro a vantaggio della società. Qualcuno in Italia si rimetterà a lavorare, qualche investimento arriverà, non si vive di solo leisure, anche una borghesiola bacucca dei baccanali, alla prova dei fatti, qualcosa si dovrà inventare, con una bella fetta di imprenditori non esattamente confindustriali giochiamo in altra serie di campionato rispetto a Varoufakis e a Di Battista, con tutta la differenza tra un attor giovane e un caratterista di medio calibro, possiamo arrestare tutti i burocrati e gli appaltatori che volete ma siamo forti in giurisprudenza, i burocrati fanno muovere la macchina, da Roma a Milano si va in due ore e cinquanta minuti, l’Expo sarà il solito trionfo con il solito grave ritardo. O si tira avanti fino al 2018, e si fa qualcosa nel frattempo, o si vede che fare con nuove elezioni. Ma il 2018 è più probabile, lo dicono tutti. E poi, con quel che succede nel mondo, il piede di casa mi ha francamente annoiato, da tempo parlo d’altro (qui ha ragione Emanuele Macaluso, sul Corriere di ieri), la tenerezza di Francesco, la morte per acqua, i saraceni, la gay culture.

 

Svolgimento (dopo la premessa). Nell’attacco a Renzi di oggi si ripresenta qualcosa di patologico nel rapporto degli italiani con il potere. Una patologia che si riflette perfettamente nel comportamento dei mass media. Una partita alla quale per adesso il popolo bue, noi stessi, è estraneo: è solo la posta in gioco, bisogna orientarlo, dicono i gufi, spingerlo all’indignazione o, più credibilmente, alla rassegnazione. Non voglio citare. Lascio da parte Leopardi, ma anche Giulio Bollati, forse solo Arbasino mi verrebbe in aiuto. Non voglio fare un discorsetto accudito. Me ne impipo di Science Po, luogo di seminari deliranti in particolare quando si parli di politica e di Italie, ah les italiens! (Auguro a Enrico Letta un soggiorno regale a Parigi, città meravigliosa a patto che la si conosca come la conoscono i litigiosi parigini di cattivo umore). Non parlo di manovre dei poteri forti. Blocco ogni metafora indebita per mia scelta, per essere coerente con la premessa, la signorina Premessa. Dico una cosa semplice. E’ tornato l’Aventino, formula ridicola e perfino ridicolmente sguaiata, impotente, castrante, almeno per un realista senza illusioni della politica quale mi credo di essere (chi mi credo di essere!). Sono tornati gli Azzeccagarbugli del costituzionalismo. E’ tornato lo spirito di blocco. Gli ammiccamenti trasversali sull’uomo solo al comando. Le stronzate sulla mutazione genetica, ora della democrazia, ora della sinistra che perde se stessa, ora del Pd. Sono tornati il controllo di legalità, formula antipolitica intrinsecamente illegale e le manovre dei pm. E’ di nuovo l’ora dell’indignazione e del girotondo, a parte Moretti che ha i suoi problemi e dice giustamente di non capire più niente. Attenti, dicono senza crederci minimamente, per pura gola: è in pericolo (coatto, gridato demagogicamente, urlato con furbizia, sussurrato con malizia) il paese stesso in cui viviamo, la patria, perché il governo della Via Paal non intende farsi fottere dai vecchi marpioni, tornare in Senato con la legge elettorale, ricominciare il trade off solito che alla fine realizza non il libero scambio ma la svalutazione generale delle merci sul mercato.

 

[**Video_box_2**]Il meccanismo è sempre uguale, si tratti del referendum sulla scala mobile (B. C.), del patto per l’Italia e dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (S. B.), della riforma elettorale o del Senato non elettivo (M. R.). Spunta il più livido rancore, si diffonde il sospetto ideologico, dilaga la paura che un governo faccia le cose che ha il mandato di fare, la baldanza ordinaria di chi vuol fare qualcosa diventa un andare per le spicce, una sfida alla legalità, le cooperative sono marce, organizzazioni paracriminali, c’è sempre un Saviano per dire allusivamente che “quei morti pesano sulla nostra coscienza” (un tratto di originalità cognitiva a 5 stelle), questo o quell’altro sono colpevoli a prescindere, la solita adulazione di chi comanda (sempre vigorosa) si integra con la sottile delegittimazione di chi governa, si fanno salti mortali e si elaborano contorsionismi verbali sempre più spericolati, fioccano avvisi di garanzia elettorali, come con tutti quelli, compreso Prodi, che minacciavano prima di Renzi la creazione di un ordine politico quale che fosse. Siamo un ceto politico e giornalistico di refrattari, svogliati per presunta convenienza, vestali del contropotere incapaci di dare un assetto serio e responsabile a un’opposizione (che infatti in quanto tale, come viceversa avviene in tutti gli altri paesi occidentali, con i suoi piani alternativi, le sue idee, le sue battaglie, non c’è). E di più. Le gride aventiniane segnalano la differenza. Perché si comprende che o la va o la spacca, questa volta è più grave, alla cooptazione è seguito un meccanismo infernale di primarie, di manovre politico-parlamentari legittimate dalla parte che impone il suo potere legittimante, la sinistra. E allora tutti con Brunetta, tutti con l’onorevole Scotto, i dieci piccoli indiani della commissione Affari costituzionali diventano lo scalpo della libertà ferita, viva le preferenze ieri aborrite, viva il voto segreto senza vincolo di mandato (chissà, forse anche Casaleggio si assocerà, lui che deve aver leggiucchiato qualche manuale rousseauiano sulla volontà generale in rete).

 

A noi non piace essere governati, non importa se bene o male, non è qui il problema, non è una discussione sulla legittimità ovvia dell’opposizione, una volta siamo per il Borbone, un’altra per Garibaldi, un’altra per il Duce, una volta per la Repubblica e la Costituzione, ma la segreta riserva è sempre la stessa: no ordine liberaldemocratico, no opposizione normale, ordinaria, costituzionale nel senso americano del termine, radicata nel comune riconoscimento di valore. Queste sono banalità per il ceto politico melodrammatico dei tenori e dei soprano d’agilità. All’atto pratico, ecco, è tornato l’Aventino.

 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.