Mario Monti e Corrado Passera, promotori nel 2012 della nuova agenda digitale italiana. Da allora, tre anni di fallimenti dice Brunetta (foto LaPresse)

Un Nazareno digitale. Perché l'Italia riparte solo se informatizzata

Renato Brunetta
Cinque punti per far uscire dai cassetti gli impolverati e sgangherati progetti della nuova agenda digitale italiana.

Gran parte del successo dell’economia americana si giustifica con la diffusione dell’ICT (Information and Communications Technology). E’ stato calcolato che almeno la metà della sua maggiore produttività deriva dalla diffusione a livello di massa delle tecnologie informatiche. Che, a loro volta, non hanno bruciato posti di lavoro, ma creato maggiori opportunità, eliminando, questo sì, le strutture più obsolete. Si è trattato, in altri termini, di una grande processo di riconversione produttiva, in un gioco a somma positiva, che ha, al tempo stesso, fatto crescere l’economia, aumentato l’occupazione e consolidato un primato tecnologico. Che è la vera garanzia per il futuro degli States.

 

Tutto ciò è stato possibile grazie alla lungimiranza di un’Amministrazione che ha saputo accompagnare questo processo con la realizzazione di infrastrutture immateriali potenti (la rete a banda larga) e processi di riorganizzazione interni che indicavano al grande pubblico la strada da seguire. L’effetto imitazione, in quasi tutte le giunture dell’economia, è stato solo conseguente. Best practice completamente ignorata dalle più recenti Autorità italiane di governo. E purtroppo gli effetti si vedono tutti.
Sono passati più di tre anni da quando (febbraio 2012) il governo di Mario Monti e i ministri Corrado Passera, Francesco Profumo e Filippo Patroni Griffi decidono di lanciare una nuova agenda digitale italiana e di chiudere l’esperienza del Dipartimento per l’innovazione della presidenza del Consiglio dei ministri, di DigitPA e dell’Agenzia per l’innovazione. Tre anni di fallimenti, di promesse andate a vuoto, di smantellamento progressivo di tutto quello che il governo di Silvio Berlusconi aveva fatto in materia d’innovazione digitale. Servirà un anno solo per vedere all’opera il commissario dell’Agenzia per l’Italia digitale, che poi finirà miseramente, scoprendo di essere decaduto per non aver approvato in tempo utile il bilancio, per aver impiegato quasi due anni per avere uno Statuto dell’Agenzia (pubblicato in Gazzetta ufficiale a febbraio 2014) e quasi tre anni per nominare il Comitato d’indirizzo (novembre 2014).

 

In mezzo c’è stato di tutto: dal supercommissario Francesco Caio messo da Enrico Letta in un parcheggio digitale prima di andare, nominato da Renzi, a comandare in Poste Italiane, alla meteora Alessandra Poggiani che, dopo aver ottenuto grande aiuto per difendersi dalla mancata laurea, sbatte la porta perché dice di sentirsi troppo sola. Anche la reiterata promessa di un presidio istituzionale forte sull’innovazione, un ministro o almeno un sottosegretario l’abbiamo sentita dire tante volte, ma non si è mai concretizzata. Il buon senso dice che quando si prende in mano un programma di altri si deve cercare di salvare il buono e migliorare il meno buono. Ci saremmo quindi aspettati che prima Passera, poi Letta e infine Renzi mettessero mano all’agenda digitale recuperando la parte migliore dei progetti avviati dal governo Berlusconi, integrandoli, sostenendoli, rimodulandoli laddove necessario. Abbiamo assistito invece a una becera distruzione del lavoro fatto.

 

Per cercare di capire meglio partiamo allora dalla fine della storia. In questi giorni la presidenza del Consiglio ha pubblicato un curioso documento intitolato “Strategia per la crescita digitale”. Potrebbe essere la tanto attesa risposta alla promessa di Corrado Passera che nei primi giorni del 2012 annunciava a tutto il mondo la pubblicazione di una strategia nazionale per l’agenda digitale e, come è nello stile dell’allora superministro, nulla ha fatto per rendere concrete le sue promesse.
La strategia di Matteo Renzi prevede che su 4,7 miliardi di euro di investimenti nei prossimi cinque anni per la strategia digitale, ai pagamenti elettronici siano destinati 5 milioni di euro (ossia lo 0,1 per cento); alla scuola digitale 30 milioni di euro; alla giustizia digitale 15 milioni di euro; alla fatturazione elettronica 10 milioni di euro. Ben 1 miliardo di euro invece alla razionalizzazione del patrimoni ICT delle amministrazioni (con parole diverse, ma è lo stesso fallimentare progetto dei Data center del duo Corrado Passera-Agostino Ragosa). La prova provata della continuità del disegno partito a febbraio 2012: distruggere il lavoro degli altri e impedire che possa dare qualche frutto. Il nostro disegno (chiamato “e-gov 2012”) prevedeva invece di spingere la digitalizzazione attraverso lo sviluppo di piattaforme abilitanti (nei pagamenti, nella fatturazione, nella posta certificata) e la costruzione di ambienti virtuosi della digitalizzazione pubblica, a partire proprio da scuola e giustizia digitale. Lo scorso anno per esempio la posta certificata – che oggi si dice di voler abbandonare e che ha già visto la chiusura del programma Cec-Pac che garantiva una casella gratuita valida a tutti i fini di legge per ogni cittadino residente – ha visto oltre 920 milioni di messaggi scambiati e alcune centinaia di milioni di euro di risparmi per l’amministrazione (per esempio nelle notifiche per la giustizia civile o per la distribuzione dei testi per gli esami di stato delle scuole o ancora per i bandi e le gare). La piattaforma per gli incassi elettronici delle pubbliche amministrazioni è attiva da tre anni, ma resta sostanzialmente inutilizzata e le amministrazioni procedono in ordine sparso, spesso senza procedure a evidenza pubblica, vanificando ogni possibilità di risparmio e di sinergia. Non a caso il nostro paese resta tra gli ultimi nella diffusione del commercio elettronico.

 

Le imprese attive nel commercio elettronico in Italia sono il 5 per cento, contro il 22 per cento della Germania, il 19 per cento del Regno Unito e l’11 per cento della Francia (la media europea è del 14 per cento). Il fatturato complessivo delle vendite online (via web e via Edi) delle imprese con almeno 10 addetti e che realizzano online almeno l’1 per cento del proprio fatturato è stato nel 2013 di 12,2 miliardi di euro contro i 96 miliardi del Regno Unito, i 50 miliardi della Germania e i 45 miliardi della Francia. Le gare per il sistema pubblico di connettività sono state fermate e rinviate e sono anni che si procede con rinnovi e affidamenti diretti perdendo in qualità, in efficienza e in spinta verso le imprese a innovare e migliorare prodotti e servizi. Il Global competitiveness index (Gci), un indicatore elaborato annualmente dal World Economic Forum (Wef) con l’obiettivo di saggiare le potenzialità di crescita dei sistemi economici nel medio e lungo termine, indica l’Italia al 117° posto in classifica (su 144 paesi) relativamente alla domanda di prodotti hi-tech da parte della pubblica amministrazione. Il pieno valore legale della pubblicazione sui siti istituzionali introdotto nel 2010, se vale per le pubblicazioni di matrimonio o delle ordinanze dei sindaci, ancora non vale (e lo ha deciso Passera senza che nessuno dopo abbia ritenuto di intervenire) per le gare pubbliche con uno spreco per le amministrazioni che la Ragioneria dello stato misura in 75 di milioni di euro all’anno. La carta d’identità elettronica, il fascicolo sanitario elettronico, i progetti per il wifi nelle scuole, la digitalizzazione della giustizia amministrativa, i programmi di sostegno con tecnologie digitali agli studenti ricoverati o con disabilità, i fondi per le imprese di giovani innovatori sono solo alcuni ulteriori esempi di programmi che restano nel cassetto o che marciano con voluta e insopportabile lentezza. E non si dica che mancano le risorse, visto che DigitPA e Dipartimento per l’Innovazione, grazie a un profondo piano di recupero di risorse e di efficienza interna, hanno lasciato nelle casse dell’Agenzia per l’Italia digitale oltre 300 milioni di euro, che colpevolmente il governo non riesce a spendere. La mancanza di una strategia e la non decisione non sono frutto di inerzia burocratica, ma sono un modo per lasciare le cose come stanno, salvaguardare interessi consolidati, impedire l’innovazione e l’ingresso di nuovi fornitori, meno costosi e più efficaci.

 

Che cosa fare?

 

Ci permettiamo di suggerire al governo cinque passi in avanti, semplici ma essenziali. Il primo è di rimettere in campo il coordinamento strategico e operativo tra le diverse strutture pubbliche che incidono sulla promozione e sullo sviluppo dell’economia digitale (dal Comitato dei ministri per la società dell’informazione alla cabina di regia per l’agenda digitale; dal dipartimento per la Funzione pubblica della presidenza del Consiglio alle decine di commissioni su temi specifici) e che lavorano dentro le singole amministrazioni (le Direzioni generali per i sistemi informativi automatizzati presenti per legge in ogni amministrazione), avviando così il superamento dell’attuale caos nella governance dell’informatizzazione pubblica.
Il secondo passo è di avviare con decisione e sistematico controllo la redazione e pubblicazione di tutti i decreti attuativi dell’agenda digitale, visto che diverse norme (per esempio il decreto legge 69/2013 art. 13) prevedono un potere sostitutivo del presidente del Consiglio, che li può adottare anche ove non sia pervenuto il concerto dei ministri e delle amministrazioni interessati. Senza regole condivise e stabili non ha senso parlare di sviluppo del digitale nella burocrazia.

 

Il terzo passo è di investire sui processi interni che delineano le modalità di progettazione, gestione e sviluppo delle cosiddette infrastrutture nazionali condivise (dal Cert nazionale al nodo pagamenti, dalla Anagrafe nazionale unica al Repertorio delle strade, da Ipa al casellario previdenziale) che rappresentano il vero scheletro della digitalizzazione e senza il quale ogni progetto resta estraneo allo sviluppo complessivo del sistema pubblico. La sola strategia infatti non basta se mancano chiare responsabilità amministrative e chiare linee di comando su come fare le cose.

 

Il quarto passo è di rivedere (e le norme già lo prevedono) i processi di acquisto della Pa superando la logica della centrale unica alla Consip, i cui risparmi sono per lo più sulla carta e i cui effetti nel promuovere innovazione sono quantomeno modesti, limitando la presenza impropria delle società in-house e favorendo la concorrenza tra più piattaforme per gli acquisti online di beni e servizi Ict. Se non si va oltre l’attuale dipendenza da pochi fornitori e da gare che non durano meno di 12-15 mesi l’innovazione tecnologica delle amministrazione è una pura chimera.

 

[**Video_box_2**]Il quinto passo è di introdurre un presidio forte e competente sui temi essenziali allo sviluppo dell’ecosistema digitale (dalla firma elettronica alla posta certificata, dalla conservazione sostitutiva all’accesso ai servizi online della Pa) e di vigilanza sugli operatori di mercato. Il fallimento dell’Agenzia per l’Italia digitale di Ragosa e di Poggiani dipende non poco dal desiderio loro e dei loro ministri vigilanti di occuparsi di tutto un po’ (dalle comunità intelligenti alle start-up) finendo per girare l’Italia da convegno a convegno, ma facendo girare a vuoto la macchina amministrativa.

 

Cose semplici da fare, senza nuove norme, senza nuovi soldi, senza far crescere illusioni di una rivoluzione digitale annunciata, ma mai davvero voluta, senza la quale non ci resterà altro che continuare a denunciare che il caos digitale è figlio degli interessi dei pochi soliti noti.

 

Tutto questo ha una conseguenza perversa sull’evoluzione del sistema economico italiano. L’arretratezza che caratterizza la fase gestionale non riguarda solo i rapporti tra le varie Amministrazioni, ma incide direttamente sul modo di operare di ciascuna di esse. A causa del prevalere di una cultura lontana anni luce dalla logica intrinseca che domina le nuove tecnologie.
Un caso di scuola. L’Agenzia delle entrate non riesce, ancora oggi, a incrociare le varie banche dati che potrebbero fornire una radiografia più puntuale dello stato reale dei singoli contribuenti. I vari sistemi, questa è la giustificazione resa, sono troppo rigidi per consentire le necessarie integrazioni. Noi abbiamo tuttavia la memoria lunga. A cavallo tra gli anni ’70 e ’80, l’Inps era alle prese con il drammatico problema dell’evasione contributiva. Gianni Billia fu allora incaricato di procedere a una riorganizzazione dell’istituto. Lo fece utilizzando un’elettronica, allora elementare rispetto alle tecniche oggi disponibili. L’incrocio tra i diversi dati consentì di scovare in breve tempo furbi e inadempienti. Possibile che quello che si fece in quel lontano periodo non sia replicabile nel momento in cui la potenza delle tecnologie è cresciuta in modo esponenziale?

 

Renato Brunetta è Capogruppo di Forza Italia alla Camera