Matteo Renzi e Barack Obama alla Casa Bianca, venerdì (foto LaPresse)

Come evitare che la politica estera di Renzi sia buona solo per un post su Instagram

Claudio Cerasa
Che direzione ha, se ce l’ha, la politica estera italiana? Al netto dello spin renziano sull’incontro “storico” e la formidabile “chimica” con Obama, indagine non tanto sui risultati della politica estera renziana (è presto) quanto sul suo senso, i suoi punti di forza e i punti di debolezza - di Claudio Cerasa

Estere o non estere? Alla luce dell’incontro alla Casa Bianca tra Matteo Renzi e Barack Obama, incontro che la stampa italiana ha descritto con parole sobrie e misurate (“Storico”, “Idillio”, “Ammirazione”, “Chimica”, “Intesa perfetta”, “Sintonia”, “Scintilla”), può avere una sua utilità indagare in modo non pigro attorno a un tema che promette di essere cruciale tanto per la vita del nostro governo quanto per il destino del nostro paese. Il tema è semplice: che direzione ha, se ce l’ha, la politica estera italiana? Al netto dello spin renziano sull’incontro “storico” e la formidabile “chimica” con il presidente Obama, a un anno e mezzo dal suo arrivo a Palazzo Chigi si possono provare a individuare già oggi non tanto i risultati della politica estera renziana (è presto) quanto il suo senso, i suoi punti di forza e i punti di debolezza.

 

Più che il rapporto con Obama (che Renzi sia un filo americano è chiaro, ma bisogna vedere, in prospettiva futura, se Renzi è solo obamiano o è filo atlantista, e non è detto che i due concetti siano sovrapponibili), i volti chiave da tenere in considerazione per ragionare in modo non banale sulla politica estera di Renzi sono tre. E sono tre nomi che hanno in comune tutti un principio basilare all’interno della logica seguita dal presidente del Consiglio per muoversi sullo scacchiere internazionale: l’interesse nazionale. Partiamo dal principio, poi arriviamo a qualche risultato. All’interno di questa cornice i tre nomi chiave della politica estera renziana sono senza dubbio Angela Merkel, Vladimir Putin e il presidente Al Sisi. E con tutti e tre i soggetti, Renzi sta provando a interloquire nella veste di mediatore più che di rottamatore. Nei confronti di Angela Merkel (qui il discorso è insieme geopolitico ed economico) Renzi, forte del risultato ottenuto alle Europee, forte della sua capacità di contenere il populismo nel suo paese, forte anche del numero di riforme messe in cantiere in un anno e mezzo di governo, prova a muoversi come se fosse – almeno nelle intenzioni romantiche – il nuovo e futuro sparring partner con cui la Germania dovrà confrontarsi per dare un indirizzo alla politica estera dell’Europa (e la nomina di Mogherini ad alto rappresentante della politica estera europea va letta anche sotto questa luce). L’idea di Renzi rientra nella logica nazarenica, per così dire, e su più partite il presidente del Consiglio sta provando a porsi come l’unico vero leader di sinistra (Hollande chi?) con il quale il politico europeo numero uno (Angela) deve fare i conti per decidere i destini del nostro continente.

 

Da una parte, come si è visto anche nel suo viaggio americano, Renzi, in questo sì appoggiato da Obama, sta provando a creare un controaltare all’egemonia economica merkeliana contrapponendo alla parola “austerity” (che ormai fa breccia eccome anche nel vocabolario della sinistra) la parola crescita. Ma su questo campo la partita è ancora molto tortuosa e nonostante una piccola flessibilità introdotta nel lessico comune delle istituzioni europee Renzi non è riuscito ancora a ottenere quasi nulla dall’Europa, e lo stesso piano degli investimenti Juncker che avrebbe dovuto rivoluzionare il mondo al momento è un fallimento o poco più. Dall’altro punto di vista, sempre nell’ottica del voler spezzare, almeno mediaticamente, l’asse strategico tra Francia e Germania, Renzi ha deciso di muoversi in Europa per essere, o almeno per provare a essere, il possibile mediatore tra Russia e Occidente. Simbolicamente ha un peso il fatto che il presidente del Consiglio italiano abbia scelto di incontrare Vladimir Putin in una fase in cui il mood europeo, in sintonia con la logica delle sanzioni, era quello di isolare la Russia dello Zar. Ma nella geometria renziana non può aver senso coccolare l’anti putinismo per almeno tre ragioni.

 

La prima è banalmente di carattere economico e su questo punto si può dire che il dialogo privilegiato che l’Italia prova avere con la Russia (di cui l’Italia rimane il quarto partner commerciale nel mondo) ha una sua spiegazione nei numeri, considerando che il mercato russo rappresenta ancora oggi un valore pari a circa 10 miliardi di euro per le esportazioni italiane – e dato che solo lo scorso anno questo valore si è ridotto del 12 per cento (sanzioni, crisi finanziaria, svalutazione del rublo) Renzi ha capito che con la Russia non si può che non perdere il filo del dialogo. La seconda ragione è di carattere politico: nella logica della mediazione nazarenica compito dell’Italia, anche grazie alla sua centralità geografica, deve essere quello di provare a creare un nuovo spirito da Pratica di Mare. E, in prospettiva, provare a mettere a uno stesso tavolo il presidente degli Stati Uniti e quello russo (e chissà che non ci sia qualcosa che bolle in pentola). La terza ragione è invece di carattere geopolitico e si lega al terzo terreno sul quale la politica estera italiana deve mostrare di avere una sua identità specifica: la Libia. Putin è decisivo per l’Italia non solo per il suo legame solido con il terzo personaggio chiave della politica estera renziana (il presidente Sisi) ma anche perché l’Italia sa che per garantire la stabilità e la sicurezza della Libia è necessario trovare alleati in ambito Onu. E avere dalla propria parte (dell’Italia e dell’Occidente) una Russia disposta a impegnarsi contro lo Stato islamico non è certo un passaggio di secondo conto.

 

[**Video_box_2**]Un rapporto privilegiato con la Russia è dunque un fattore di garanzia per la difesa dei nostri interessi, non solo in ambito di sicurezza, ma anche in ambito energetico e commerciale. E sempre all’interno di questa chiave di lettura va inquadrato il rapporto speciale che Renzi ha scelto di costruire con il presidente egiziano Sisi, che non a caso è stato uno dei primi leader internazionali incontrati dal presidente del Consiglio durante il semestre europeo. Sisi, come si sa, ha un ruolo strategico per la politica estera italiana soprattutto in funzione di alleato prezioso da utilizzare per il nostro paese sul confine con la Libia. E a prescindere da quel che farà direttamente l’Italia per intervenire in Libia (si deciderà nei prossimi mesi, ma un contingente italiano prima della fine dell’anno arriverà, anche a costo di portare avanti solo azioni preventive di anti terrorismo) il ruolo di Sisi, gran fustigatore del fondamentalismo islamico, è cruciale non solo per offrire alle aziende italiane attive nel nord Africa un sostegno attivo a difesa delle proprie attività (e molto spesso anche dei pozzi di petrolio) ma anche perché, nella logica renziana, non c’è altra via d’uscita per il mondo arabo-islamico se non quella di foraggiare, sotto ogni punto di vista, una via arabo-islamica alla democrazia.

 

Tutto questo naturalmente non può prescindere dal fatto che l’azione italiana, con la sua debole e fragile identità, deve partire dal presupposto che il nostro paese non ha la forza di combinare nulla senza aggrapparsi ad alleanze bilaterali con attori più forti. E considerando che l’Italia ha la sventura di trovarsi a un passo dall’epicentro della guerra civile arabo-islamica non ci vorrà molto per capire se la strategia nazarenica di alleanze globali funzionerà o se alla fine risulterà essere solo materiale utile per un paio di post su Instagram. La direzione dunque c’è, si intuisce, ma per comprendere se i risultati arriveranno occorre verificare cosa riuscirà a ottenere Renzi dai tre interlocutori scelti per dare un senso alla sua politica estera. La crescita dalla Merkel. La stabilità dalla Russia. La sicurezza da Sisi. E per mettere un piedino nella storia – e riuscire a dimostrare che le policy estere hanno un peso non solo per questioni mediatiche ma anche per questioni strategiche – non è certo sufficiente un bel cinque gioioso, storico, idilliaco con l’amico Barack.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.