Il sindaco Guido Castelli entra a Palazzo Chigi per l'incontro tra governo e comuni con un mazzo di carte "da baro" (foto LaPresse)

Come ti sveglio il centrodestra, dal basso. In viaggio tra i non-rottamatori

Marianna Rizzini
Sono sindaci, ex sindaci, amministratori locali, aspiranti consiglieri regionali. Sono un po’ carbonari ma escono volentieri allo scoperto. Si incontrano a cena in quel di Spello, in Umbria, l’ultima volta poco tempo fa, per decidere “come non morire renziani” e come “irrobustire il brand appannato di Forza Italia”.

Roma. Sono sindaci, ex sindaci, amministratori locali, aspiranti consiglieri regionali. Sono un po’ carbonari ma escono volentieri allo scoperto. Si incontrano a cena in quel di Spello, in Umbria, l’ultima volta poco tempo fa, per decidere “come non morire renziani” e come “irrobustire il brand appannato di Forza Italia”. Si conoscono e si ritrovano nelle retrovie della politica, quella non-nazionale e concretissima dei “12 passi”, come dice Guido Castelli, sindaco di Ascoli Piceno sotto le insegne di FI nonché di altre undici liste “civiche e ciniche”, come le aveva chiamate lui un anno fa quando è stato rieletto primo cittadino al primo turno, con una brochure intenzionalmente fatta per sbalordire l’elettore ondivago (“molti hanno votato Pd alle europee e Castelli al comune”, dice). C’erano, sulla brochure, foto di Castelli con Matteo Renzi e foto di Castelli con l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio, ma nessuna foto di Castelli con il Cav.

 

Dodici passi, dunque: cioè quelli “che puoi fare uscendo di casa”, racconta il sindaco di Ascoli, prima di incontrare la vecchietta inviperita per le buche o lo studente incazzato per il lavoro che non c’è: “Al tredicesimo passo capisci che un sindaco non potrà mai essere un cooptato o un nominato delle segreterie di partito – dice – e che non bisogna avere paura delle preferenze e della contendibilità della carica o del collegio”. Il consenso o il malcontento, al tredicesimo passo, li misuri a occhiatacce, forse anche a parolacce.

 

Sono già tanti e al tempo stesso ancora pochi, i “non-rottamatori”, ché la parola “rottamazione” ha “stufato” assieme allo slogan “tutti a casa”, dice Alessandro Cattaneo, giovane ex sindaco azzurro di Pavia e animatore della piccola nouvelle vague con Castelli, con Andrea Romizi, trentenne sindaco di Perugia, e con altri amministratori abituati a “non perdere mai il segnale radar della realtà”: vogliono, i “non-rottamatori”, un centrodestra che combini qualcosa prima che sia troppo tardi, prima che si consolidi la tendenza di un Pd di governo “con avversari che paiono fatti apposta per farlo dormire sereno”, dice Castelli. Non vogliono “morire renziani”, i non-rottamatori, ma in qualche modo del primo renzismo sono figli, in particolare del renzismo iper-locale di matrice Anci: politica sul territorio, trasversalismo e rottamazione, quella sì, dei “riflessi condizionati di una certa sinistra”. Sono in fuga dalla pazza folla convulsa del Palazzo (Grazioli), i sindaci ed ex sindaci pronti a scuotere la Forza Italia ora in subbuglio per le baruffe intestine in Puglia, Veneto, Liguria e per il redde rationem tra fittiani e non fittiani. E però dell’ex Cavaliere e leader carismatico Berlusconi, ora a fine pena (basta affidamento ai servizi sociali, passaporto restituito, non candidabilità fino al 2019 ma ubiquità permessa), vogliono rilanciare “il meglio”. Ovvero “l’uomo, la fantasia, la capacità di federare”, capacità indispensabile all’opera di “riconfigurazione” di Forza Italia, sofferente per le vicissitudini dello stesso B. negli ultimi anni, sì, ma pure “per le risse” dei sotto-leader e “per le scelte sbagliate” (“non il patto del Nazareno, che invece è stato un colpo di genio e ha fatto risorgere un Berlusconi politico”, dice  Castelli, “ma l’appoggio al governo Monti, una sorta di patto di non belligeranza che ci ha portati quasi nella bara”).

 

Ma come renderlo di nuovo appetibile, il brand? “Rigenerando alle radici, mettendo in moto l’ascensore sociale nel partito, e non dico in senso strettamente generazionale ma nel senso della capacità, dell’energia, delle idee. E per capire chi ha capacità e idee”, dice Castelli nel ruolo del sedicente “usato sicuro”, bisogna cominciare “dai sistemi di reclutamento”. Qui viene il difficile: l’accordo sui sistemi di reclutamento non c’è, nel centrodestra come nel centrosinistra. Eppure servono sistemi più “dal basso”, popolari magari presso l’elettore ma non proprio universalmente amati nei partiti (come le primarie, croce e delizia del Pd e poi anche del fu-Pdl, sebbene soltanto a livello di desiderio frustrato, come i collegi uninominali o le tanto vituperate preferenze).

 

Hanno parlato di questo – a cena in Umbria – Castelli, Romizi e Cattaneo, cercando di capire come ridare slancio vitale alla “monarchia anarchica” di Forza Italia, in cui l’accettazione del principio carismatico (carisma di B.) è fuori discussione (almeno per loro). Anche se non la pensano tutti allo stesso modo. Castelli, per esempio, che non è un “nativo berlusconiano” e che ha alle spalle una lunga militanza e carriera politica al comune, alla provincia e alla regione tra Fronte della gioventù, Msi e An, e soltanto alla fine nel Pdl e in Forza Italia, dice che al centrodestra manca “una specie di Ump, una destra gollista che riempia lo spazio tra Matteo Salvini e Angelino Alfano, ferma restando la necessità di unire quello che si può unire”, come dimostra la sua esperienza sul territorio. Questo “Ump” rivisitato, dice Castelli, dovrebbe portare una sua “dottrina sociale dei valori” e dovrebbe essere consapevole del ruolo da rivestire di fronte alle “forze di stampo più lepenista, diciamo così, la Lega di Matteo Salvini e i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni”. Dopo le regionali, Castelli vede “un lavorìo intenso con Berlusconi ben presente sullo sfondo, ma con un’azione sul canovaccio politico meno istintuale, più strategica, anche in vista dello scenario post Italicum, con la prospettiva del ballottaggio”.

 

Tra i quasi-carbonari che pensano alla “rigenerazione del brand”, come dice Castelli, si è pensato molto a come fermare “il generale fuggi-fuggi dell’elettore dai tradizionali archetipi di partito”. E ci si è risposti con una certezza: non si può prescindere dalla “disintermediazione”, non si può fare gli schizzinosi, ma neanche “demonizzare” chi magari è stato “nominato” ma “si è dimostrato bravo”. Rimescolare, è l’idea, mettere alla prova tutto quello che, intanto, è possibile mettere alla prova (torna insistentemente, nelle parole di Castelli, l’idea di collegio uninominale e di primarie in alcuni casi da accettare come “palliativo”). E alla fine il sindaco di Ascoli, di professione avvocato, cita “Asterix”, sua lettura di gioventù, per spiegare che “non ci tiene a fare la fine dei Goti che a forza di bisticciare hanno fatto vincere i romani”, e racconta di aver deciso “di fare politica prima ancora di decidere con chi farla”.

 

[**Video_box_2**]E’ andata così: il giovane Castelli, allora diciassettenne, studente di liceo classico con un nonno ex repubblichino e un padre ex renitente alla leva (poi militante del Partito d’azione e infine socialdemocratico), si trovò un giorno ad assistere a un comizio in un paese dell’ascolano a forte prevalenza comunista. Suo padre, che era atlantista convinto, fu fischiato. Castelli, scioccato, pensò allora di volersi buttare ovunque non ci fosse quell’impronta comunista a suo giudizio anche molto illiberale. Recatosi in centro ad Ascoli, trovò chiusa la porta del Partito monarchico, sua prima scelta. Seguì l’ingresso nel Fronte della gioventù e tutto un cursus missino-aennino, in cui però non riscosse mai troppa esplicita approvazione da Gianfranco Fini, “sempre piuttosto misantropo”, dice Castelli (che una volta fu destinatario del muto rimprovero del leader, sotto forma di sguardi cupissimi, in occasione di un pubblico evento in una piazza marchigiana, per via dell’amplificazione ohimè malfunzionante). Con Maurizio Gasparri, invece, è sempre stata “grande intesa”, nonostante le liti su Twitter tra Gasparri medesimo e l’amico (di Castelli) Alessandro Cattaneo, impegnato, come si è detto, nella futuribile lotta per la “rigenerazione” di Forza Italia. Non che sia tutto da buttare via: Castelli loda molto Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, esempi dei suddetti “politici nominati ma bravi anche sul territorio”. Di altri “Goti” del Castello berlusconiano, per rifarsi ancora ad Asterix, “non si può dire lo stesso”, dice il sindaco di Ascoli, senza fare i nomi dei nemici, ma citando volentieri quello di Piero Fassino, avversario politico, ma amico all’interno dell’Anci – e si capisce che per “non morire renziani”, vuoi per effetto ottico vuoi per contrappasso, tocca a volte mutuare i modi del renzismo.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.