Maurizio Landini (foto LaPresse)

Oooooh, Landini

Claudio Cerasa
Maurizio Landini è un simpatico sindacalista che conosce i segreti della comunicazione, che riesce senza difficoltà a risultare insopportabile agli interlocutori, e dunque spesso a farli uscire di senno, che sa quando è il momento giusto per mostrare a favore di telecamere la propria canotta sudata.

Maurizio Landini è un simpatico sindacalista che conosce i segreti della comunicazione, che riesce senza difficoltà a risultare insopportabile agli interlocutori, e dunque spesso a farli uscire di senno, che sa quando è il momento giusto per mostrare a favore di telecamere la propria canotta sudata, spiegazzata e pregna di infaticabile lavoro, e mediaticamente parlando è riuscito a occupare una casella che fa la felicità di ogni autore di ogni talk-show: quello che prende, parte e dice du’ cose a caso contro Renzi. Nell’èra dell’egemonia della Leopolda, avere Landini in tv, con i suoi wuuuuuaaaa, oooohh, ehhhhh, è più eccitante che ospitare un monologo della signora (zzzzz) Camusso. Ma più passa il tempo in tv, più l’osservatore prende confidenza con la grammatica landiniana e più si rende conto di come questo simpatico sindacalista si stia trasformando nell’erede naturale di Antonio Ingroia. Stesso pubblico. Stessi fan. Stessa stampa. E proprio come il nostro beniamino che ha allegramente usato le proprie inchieste per fare politica, Landini oggi sta usando il consenso che ha costruito in una vita passata nel sindacato per fare la sua rivoluzione civile. Si candiderà? Non si candiderà? Poco importa. Il progetto della coalizione sociale, vaste programme, è chiaro, è speculare a quello che provò a incarnare con il successo quotidiano che sappiamo Ingroia ed è un tentativo che punta a mettere insieme, più che una proposta precisa, tutti gli antagonismi. Da un certo punto di vista, Ingroia è stato più coerente di Landini e quando il suo primo lavoro (il magistrato) era diventato parente stretto del suo futuro lavoro (la politica) ha deciso di fare un passo in avanti per candidarsi alla guida del paese. Landini forse non arriverà a tanto (peccato, sarebbe uno spasso) ma attorno alla sua figura si gioca una partita importante che è quella che riguarda la Cgil.

 

In un primo momento, Landini poteva essere la persona giusta, per spirito, carattere, estetica e gusto per le canotte, per trasformare la Fiom nel giusto interlocutore del governo e rottamare il vecchio arnese Camusso. Landini ha avuto un anno di tempo ma tra una serata a Porta a Porta, un’intervistina a Ballarò, una chiacchiera da Floris, un cappuccino con Agorà, non è riuscito a incassare nessuno dei risultati che avrebbe potuto ottenere. Che fine ha fatto la battaglia sulla rappresentanza sindacale? Che cosa aspetta la Fiom a chiedere una seria riforma che semplifichi la contrattazione aziendale? E perché Landini non ha detto una sola parola quando è scaduta la delega legislativa della legge Fornero (comma 62, articolo 4, legge 28 giugno 2012 numero 92) che avrebbe rimosso il divieto di partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori dipendenti nei consigli di sorveglianza? Zero assoluto. Più che stupirsi dunque per il divario che esiste tra esposizione mediatica (a manetta) e successi ottenuti (lo scorso 14 febbraio, la Fiom ha indetto uno sciopero a Pomigliano a cui hanno aderito 5 operai su 1.478; il 15 gennaio stessa scena alla Sevel, in Val Di Sangro: 3 per cento della partecipazione; il 28 febbraio stessa scena a Melfi: allo sciopero partecipano 15 operai su 1.500) ciò che stupisce è l’incapacità del leader della Cgil, Camusso, di capire che ha l’occasione di fare una cosa che non ha mai fatto finora: contare qualcosa. Come? Non regalando il suo sindacato a Landini-Ingroia ma capendo che oggi chi cambia il sindacato può aiutare a cambiare il paese. La magistratura, dopo il caso Ingroia, non ha fatto molto per autoriformarsi. Il sindacato, invece, è ancora in tempo. Riuscirà Camusso a capire che quella che ha oggi è l’occasione della vita? Chissà.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.