Antonio Ingroia, detto Antonino: è indagato a Palermo per una storia non chiara di assunzioni a Sicilia e-Servizi

Ingroia story

Marianna Rizzini
La parabola triste di un magistrato ossessionato dalla politica. Voleva conquistare Palazzo Chigi, è finito indagato dagli ex colleghi.

Sono i giorni della caduta degli ex dèi in toga (sentenza di Cassazione su Silvio B.), i giorni dello straniamento  per gli inquisitori decennali, i giorni del contrappasso, anche: capita infatti che l’ex pm de “La trattativa” stato-mafia (indagine nonché film di Sabina Guzzanti) ed ex candidato premier Antonio Ingroia detto Antonino, sia ora indagato a Palermo dalla sua ex procura, per una storia non chiara di assunzioni a Sicilia e-Servizi (assieme al suo paladino, l’uomo che dopo l’addio alla magistratura di Ingroia – causa passione politica già frustrata dalle urne – ha tribolato per trovargli un incarico: il governatore siciliano Rosario Crocetta). E bisogna fare qualche passo indietro, ché la caduta del dio Ingroia, ex star dell’antimafia militante, non è iniziata oggi.

 

Ci sono, intanto, due fotogrammi-indizio. Nel primo fotogramma (del 2012), si vede un Ingroia vagamente divertito che saluta in video gli amici vicini e lontani, con un bicchiere di vino rosso in mano. Vado in Guatemala, dice, vado in Guatemala per l’Onu a combattere il narcotraffico. Seguivano i Diari dal Guatemala sul Fatto quotidiano, e i collegamenti con gli studi santoriani. Sfondo di palme al vento, cieli tropicali e dichiarazioni del tipo “se la strage di via D’Amelio non è stata pensata, attuata, da uomini dello stato, di certo lo stato ne è stato complice. Questo posso dire di saperlo”. “Io so”, diceva l’Ingroia guatemalteco, si immagina nelle pause dell’inseguimento-narcos, “io so” (affermazione, ma anche titolo di un suo libro). “Il mio libro si chiama ‘Io so’ e il sottotitolo potrebbe essere ‘perché ho le prove’”, diceva, “ho ricostruito con sufficiente solidità, sulla base dei fatti emersi, una trama criminale che ha pesantemente condizionato la Prima e la Seconda Repubblica… Borsellino è stato ucciso perché considerato un ostacolo alla trattativa, ma come faceva Cosa nostra a saperlo? Deve averlo saputo dallo stato. Quello che voglio dire è che se la morte di Borsellino non è stata pensata, realizzata, da uomini dello stato, di certo lo stato ne è stato complice e questo posso dire di saperlo”. Ed era un appello alla pancia della società emotiva, quello, la società che, ci mancherebbe, non vuole dimenticare le vittime di mafia e chiede, ci mancherebbe, giustizia e verità – solo che poi spesso ci si mette di mezzo il protagonismo di alcuni magistrati, almeno fino al crollo dell’impianto accusatorio o alla messa in dubbio di alcune “patacche”: a Ingroia, a proposito di “trattativa”, è accaduto con Massimo Ciancimino, figlio di Don Vito, dall’ex pm definito “icona dell’antimafia” e dai magistrati di Caltanissetta dichiarato pubblicamente inattendibile. 

 

Poi c’è il secondo fotogramma: quello dell’Ingroia che, a neppure due mesi dal bicchiere di vino pre-Guatemala, e a neanche tre mesi dalle elezioni politiche, torna dal Sudamerica di gran carriera per candidarsi premier alla testa della nuova creatura ibrida Rivoluzione civile, un po’ casa politica dei giudici un po’ dei centri sociali, un po’ partito liquido (“cittadini non legati a nessuno”) un po’ accozzaglia (l’allora concorrente sul piano anticasta Beppe Grillo lo chiamava “bidone aspiratutto”). C’erano gli ex comunisti (Prc e Pdci) e gli ex Verdi, con Ingroia, e l’Idv decapitata dalle inchieste di Milena Gabanelli a “Report”. Ingroia non ci lasciava neppure il cuore, in Guatemala. Se ne andava senza grandi complimenti, con tanti saluti ai bellicosi progetti di cattura narcos, talmente in fretta da irritare la signora Carmen Ibarra, presidente della ong Movimiento pro Justicia: “Il suo arrivo in Guatemala aveva creato grandi aspettative nella comunità internazionale”, faceva sapere Ibarra, “ci avevano detto che veniva un esperto di mafia e anticrimine, una persona in grado di fronteggiare la delinquenza organizzata. Il fatto che se ne sia andato dopo meno di due mesi per me è stato un gesto irresponsabile, che ha fatto perdere tempo e risorse all’Onu e alla commissione”. Ma era troppo urgente il compito in patria. Ed ecco l’altra immagine: Ingroia seduto su una seggiolina nell’antico teatro Capranica, polveroso come polverosi potevano apparire alcuni storici leader di formazioni politiche consunte dal tempo e dalle sconfitte, eppure presenti e pronti a partecipare alla nuova avventura con colui che, nelle loro parole, pareva l’eroe dei due mondi tornato dal mondo nuovo. Si era alla presentazione ufficiale di Rivoluzione civile, dicembre 2012, e Ingroia era già intento a parlare con tutti i sintomi di “sfinimento” nell’eloquio poi resi celebri dall’imitazione forse maieutica di Maurizio Crozza: che sia stato Crozza a tirare fuori il vero Ingroia che era in Ingroia? Perché l’uomo imitato su La7 dal noto imitatore superava l’originale, risultando tuttavia aderente all’originale, che ne usciva inesorabilmente (e per sempre?) macchietta. Ecco il Crozza-Ingroia, con tono strascicato, sguardo fisso, bocca ritratta in smorfia ed espressione scocciata, spiegare con lentezza esasperante la genesi del nome della Cosa, la Rivoluzione civile di fresco conio: “Si chiama così perché abbiamo messo nel cappello tante parole, e poi è uscito ’sto nome e abbiamo lasciato questo…”. Ma scusi, dottor Ingroia, chiedeva una voce fuori campo nello sketch, si può sapere chi siano i candidati? “Sono i soliti, uno vale l’altro”. E scusi, dottor Ingroia, se arriva a Palazzo Chigi che cosa fa nei primi cento giorni? “Disfo il bagaglioooo…”. E poi? “E poi disfo il bagaglioooo……”. Ma non ha un programma?, lo incalzava gentile il finto-giornalista. “Eh, sì sì, abbiamo una quindicina di provvedimenti…”, rispondeva, sempre più stanco e spazientito, il finto Ingroia, al quale, alla fine, veniva posta la domanda che ogni osservatore, fuor di sketch, sentendo parlare l’Ingroia vero, si era forse già posto: “Dottor Ingroia, ma lei ne ha voglia?”. Ed era tutto lì, il contrasto evidente tra il desiderio di farsi politico e il fastidio di non essere unico attore come sul palco dell’inchiesta “trattativa”. Fu così che nei mesi successivi, prima delle elezioni del febbraio 2013 che lo videro sconfitto (quorum mancato sia al Senato sia alla Camera), l’Ingroia aspirante premier si produsse in una serie di siparietti che nemmeno il falso Ingroia: “Basta barzellette”, diceva a chi osasse domandare “ma i suoi futuri rapporti con il Pd”?; “provocatore, provocatrice!”, gridava a chi, in tv, non lo trattava con deferenza. E una sera, da Lucia Annunziata, a “Leader”, su Rai 3, si era visto un Ingroria corrucciato e a braccia conserte, per nulla pago del sostegno esterno di Fiorella Mannoia. Un Ingroia deciso a interrompere con un “ancòòòra?” (“o” palermitana) l’insolenza di chi, in studio, pensava di poter intervistare come un qualsiasi politico il malmostoso ex pm della trattativa.
Non sorrideva, Ingroia, pur cercando il motto di spirito, e senza sorriso metteva intanto in lista i giornalisti che, sull’argomento mafie, stato e trattative gli avevano fatto arrivare la luce della ribalta: giungevano infatti a Rivoluzione civile Sandro Ruotolo, simbolo di stampa santoriana dura e pura, Sandra Amurri (teste nel processo sulla trattativa), Maurizio Torrealta (autore di un libro sul processo). Più ci si inoltrava nella campagna elettorale, più la Rivoluzione civile, in cui si era candidato anche l’ex grillino Giovanni Favia, subiva i colpi di piazza e di teatro dell’allora tonitruante Beppe Grillo, competitore sullo stesso campo (voto degli arrabbiati), e su Ingroia calava anche l’onta (fuoco amico) degli articoli sul blog dell’ex comico, dove Rivoluzione civile veniva descritta come la “foglia di fico” adatta al riciclo dei “partiti-zombie”– con tutti quei “faccioni pigliatutto”, aggiungeva Grillo durante i comizi. Il pubblico di elettori forse non capiva: che vuole, Ingroia? Vuole essere “No tav” o “sì Tav”? Moralmente intransigente o intransigente a corrente alternata? Non pareva in effetti molto intransigente, Ingroia, con il Di Pietro colpito da “Report” e per giunta “Sì Tav” quando era ministro dei Lavori pubblici. E infatti reggeva, l’alleanza con l’ex pm di Mani pulite, tanto più che l’Idv era ancora dotata di una cassa, fondamentale per affrontare una campagna così difficile. Ma già in fase di compilazione liste, come capiterà poi ai reduci di quell’avventura confluiti nella Lista pro Tsipras alle ultime europee, ci si cominciò ad accapigliare su chi dovesse meglio rappresentare questa e quell’istanza, con il risultato che alcuni nomi antimafia e pacifisti per antonomasia si ritrovarono fuori, con gran rammarico di Salvatore Borsellino, dei giovani delle “Agende rosse” e di Emergency: tutti a dire “che spreco, che spreco!”. Aleggiava pure, sulla Rivoluzione civile, l’ombra in teoria protettiva del sindaco di Napoli “arancione” Luigi De Magistris, altro ex magistrato precipitato dall’altare di intoccabilità. Ma tutto si rivelò inutile, con gran confusione nel frattempo: non c’era accordo neppure sui sogni (“che facciamo se vinciamo? Ci alleiamo o no con il Pd?”, era il tormento dei candidati). E non ci fu modo di arrivare al dunque, viste le misere percentuali.

 

[**Video_box_2**]A quei tempi Ingroia diceva: tornerò in magistratura soltanto per occuparmi “di liti condominiali”, dovessero mettersi male le cose. Si era candidato ovunque, persino a Palermo – dove era ineleggibile, vista la sua lunga attività in loco come pm (secondo il Testo Unico delle leggi elettorali). Poi il nulla: fuori dal Parlamento, con l’aspettativa agli sgoccioli e un impiego ad Aosta proposto dal Csm. Aosta, cioè i monti dopo le palme guatemalteche, Aosta l’unico luogo dove Ingroia non si era candidato. E però il flop della lista (1,8 al Senato, 2,2 alla Camera) non gli aveva impedito di confessare in diretta televisiva, ad “Agorà”, all’indomani della sconfitta, che di idee sul futuro ancora non ne aveva. E se, a poltrona valdostana appena assegnata, Ingroia aveva detto che no, in fondo quella per lui non era “una punizione”, qualche mese dopo, a poltrona sostanzialmente schifata (finite le ferie, non si era presentato, risultando di fatto “decaduto”), aveva lasciato intendere un fondo di vittimismo non sopito: “Sarei rimasto in magistratura, se mi fosse stata data la possibilità di mettere a frutto la mia esperienza ventennale di pm antimafia in Sicilia. Ma c’è chi non vuole, Csm in testa”. Dunque l’Ingroia politico non vittorioso, che a fine 2011 si era dichiarato “partigiano della Costituzione” al congresso Pdci (atto “inopportuno”, era stato il commento del Csm stesso), si ridichiarava “partigiano della Costituzione” con beata ambiguità di termini: parteggia, Ingroia, ma in nome di qualcosa di neutrale e superiore. E decideva di buttarsi in politica a valle della sconfitta politica. Era l’estate del 2013 e l’ex pm diceva che quella di lasciare la magistratura “era stata la decisione più sofferta dei suoi 54 anni”, ma aveva dovuto farlo, anche in nome del suo “maestro” Paolo Borsellino, perché “ormai occorrevano tanti cittadini organizzati in un movimento politico per difendere con la loro azione la nostra magnifica Carta”. E tac, con la bacchetta magica trasformava la zucca (la defunta Rivoluzione civile) in presunta carrozza (un’“Azione civile” poi non pervenuta). Due anni di oblio, e adesso che Ingroia si affaccia timidamente sulla possibile nuova creatura di Maurizio Landini (la “coalizione sociale” presentata oggi dal leader Fiom alla sede Fiom), ecco che arriva l’indagine a Palermo. La Palermo dove l’em pm è stato osannato per anni in nome dell’opera di scandaglio sotterraneo sulla presunta “trattativa”, con contorno di polemiche mediatiche sull’ex presidente Giorgio Napolitano e sull’ex ministro Nicola Mancino. La Palermo in cui, a volte, sono risuonate parole di critica da parte degli addetti ai lavori. Il professor Giovanni Fiandaca, penalista già membro del Csm di area pd, aveva per esempio detto che era impossibile, “già in astratto”, contestare ai vertici delle istituzioni “di avere discrezionalmente” deciso di alleggerire l’applicazione concreta di misure antimafia per evitare altre stragi da parte dei corleonesi. E Giovanni Pellegrino, ex senatore pd ed ex presidente della commissione Stragi, aveva fatto capire alla lontana la sua perplessità: “Cesare accettò la trattativa con i pirati che lo avevano rapito, ma il pagamento del riscatto non gli impedì successivamente di catturarli e di tagliare loro la testa”.

 

Man mano che l’inchiesta procedeva, i dubbi si sollevavano da più parti, anche in seno a Magistratura democratica, la corrente di sinistra dell’Anm di cui faceva parte lo stesso Ingroia. Piano piano, ma inesorabilmente, l’ex pm scivolava non nella polvere, ma sicuramente giù dal piedistallo di divinità senza macchia – divinità di legge, battaglia e scrittura (articoli, saggi, ché Ingroia è pure giornalista pubblicista). E Rosario Crocetta, il governatore siciliano che ci tiene a esser “di popolo”, dev’essersi convinto che un Ingroia Gran Gabelliere (settore riscossione imposte locali) fosse un gran colpo d’immagine nonché un giusto risarcimento per tante fatiche dell’ex pm incompreso. Eppure non gli riuscì di piazzarlo a Riscossione Sicilia (il Csm metteva il veto). Gli riuscì soltanto di affidargli il compito di amministrare Sicilia e-Servizi, la società ora “attenzionata” del giudice Lorenzo Matassa per alcune assunzioni non linearissime. E dalla Sicilia (commenti diramati dai lettori sulla stampa locale) si leva una sorta di filastrocca: “Si capì di che pasta fosse fatto Ingroia quando da Magistrato andò al congresso di un partito / si capì ancor meglio dopo la figuraccia del Guatemala / lo capì Crozza che lo imitò alla perfezione / Lo capirono gli italiani che non lo votarono / Lo capì il procuratore di Aosta che non lo vide presentarsi in ufficio / Lo capirono le vittime della mafia, quando ebbe l’ardire di definire il sig. Ciancimino un’icona dell’antimafia / L’unico a non capirlo è Rosario Crocetta”. All’ex pm resta solo Landini (uomo avvisato, mezzo salvato).

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.