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Insofferenza, ludibrio, eroismo. Intendiamoci su Zelensky

Adriano Sofri

Le denigrazioni nei confronti del presidente ucraino non sono una novità. Ma c'è commentatore e commentatore: nel caso di Domenico Quirico sulla Stampa, che “la sopravvivenza dell'Ucraina”, dipenda dagli Stati Uniti, è vero. Il problema sono le conclusioni che trae

Odessa, dal nostro inviato. Ieri era piuttosto impressionante il dispiegamento di denigrazioni, scritte o disegnate, nei confronti di Volodymyr Zelensky. Non certo una novità. Dall’inizio dell’interesse largo per l’Ucraina, cioè dall’invasione dell’Ucraina, si è compiuto uno scialo di ironia se non di sarcasmo nei confronti dell’attore, l’attorucolo, diventato davvero presidente di un così grande paese con un partito che portava e porta lo stesso nome della serie televisiva: Sluha Narodu, Servitore del Popolo. L’ironia è stata più sentita in Italia, il grande paese in cui, dopo una serie di predecessori già spettacolosi, è andato al potere un movimento ispirato alla parola d’ordine di andare a fare in culo, guidato da un attore comico i cui esponenti, così come la moltitudine dei seguaci, si è nominata dal suo stesso comico fondatore, grillina. L’avventura di un povero cristiano, si potrebbe dire se non si trattasse di un ebreo, capitata a Zelensky, era inevitabilmente destinata a eccitare le interpretazioni psicologiche amatoriali: era come certe storie di barboni che trovano il biglietto vincente della lotteria, e poi il destino fa di loro quello che vuole, di preferenza mandandoli in rovina e facendogli rimpiangere il materasso sul marciapiede. Di Zelensky in realtà non sapevamo niente, o quasi, prima che gli cadesse addosso questo singolare biglietto della lotteria. Cominciò allora la gara all’interpretazione psicologica. Io, per esempio, sopravvalutando i servizi russi, pensai il 24 febbraio che forse non sarebbe arrivato vivo al 25 febbraio, e ci trovai – solo in questo, s’intende – una affinità con la sorte di Salvador Allende alla Moneda. “Gli americani” – che si dicono così, tutti insieme, e comunque per antonomasia vuol dire “la Cia” – pensarono quasi la stessa cosa, ma più fattivamente: che dunque gli andava offerto, a lui e famiglia, il passaggio per un rifugio sicuro fuori dal suo paese occupato. Lui invece si mise quella maglietta verde (per gli insofferenti verdognola), che facesse immaginare tutto, e avvertì che non si sarebbe mosso, né lui né i suoi. Non era poco. Per esempio, era la rappresentazione rovesciata di quello che era appena successo a Kabul, piuttosto ignominiosamente per “gli americani” e in generale per tutti noi. Fu una gran sorpresa, eppure si trattava soltanto della metà meno uno della cosa: l’altra metà più uno stava nel fatto che la stragrande maggioranza della gente ucraina, con le sue donne e i vecchi e i bambini e i cani spaventati e in coda verso un riparo, mostrò di essere almeno altrettanto risoluta a resistere all’invasione. Così da rendere decisamente inappropriato e un po’ ignobile descrivere un popolo ucraino preso in ostaggio dalla recita patriottica inscenata dal suo attore presidente. 

Bene, torniamo all’insofferenza e anzi al ludibrio di cui una parte della nostra opinione si compiace nei confronti di Zelensky. Non che io ne sappia molto di più di quello che ne sapevo il primo giorno: me ne sto in Ucraina, ma frequento persone di strada e non ho occasioni di interazione con la classe dirigente, le sue rivalità, le sue epurazioni. Leggo anch’io i giornali, diciamo. E ignoro del tutto i giornali in cui l’insofferenza verso Zelensky ne fa un corresponsabile della guerra al pari di Putin, quando non uno molto più responsabile di Putin (il quotidiano Il Fatto ieri faceva gli straordinari). Ho invece letto con attenzione un articolo dell’ottimo Domenico Quirico sulla Stampa. Quirico è a sua volta persuaso che Zelensky sia un cattivo attore, che abbia aderito a corpo morto a un copione che altri, “la sciagurata aggressione di Putin” soprattutto, hanno scritto per lui, e che si sia fatto sequestrare da un ruolo sempre più inadeguato al “secondo atto” cui la guerra è arrivata, e che esige, non di cedere al prepotente – “che con quanto è accaduto in questi mesi è una ipotesi superata dai fatti” – “ma, sfruttando le evidenti debolezze russe, saper trattare i margini della vittoria”. 

Scrive Quirico: “E’ Putin che ha scritto la parte perfetta per lui: il leader che guida la resistenza eroica di un popolo intero contro una prepotenza condotta con metodo stalinista e brutale, spregiudicato, combattivo, una forza della natura nel suo vitalismo di piccola belva. Tanto da far sembrare, al confronto, il nemico, lo zar, un mediocre addetto impiegatizio del Male”. L’adiacenza degli aggettivi rischia di confondere il lettore: “stalinista, brutale” è il metodo di Putin, “spregiudicato, combattivo, ...nel suo vitalismo di piccola belva” è Zelensky, che dunque eclissa lo zar a mediocre impiegato del Male. A una tal severità è improntata tutta la fiammeggiante argomentazione di Quirico: “Il suo / di Zelensky / anno terribile e memorabile non è un composto di atti, di decisioni: in realtà non ha fatto nulla di politicamente o militarmente memorabile. I russi aggressori e gli americani hanno deciso tutto per lui”. E’ questo il punto in cui Quirico mi sembra trapassare anche lui nella famosa equiparazione: fra russi e americani – e Zelensky nel mezzo (per un pugno di dollari, appunto). A questa conclusione Quirico sembra pervenire: “In realtà / Zelensky / sa che l’unico spettatore in prima fila che conta è Biden. Perché è dagli Stati Uniti che dipende la sopravvivenza del suo Paese e il suo personaggio; dalla volontà americana di preservare la centralità della onnipotenza americana in campo internazionale contro qualsiasi tentazione anti egemonica. Il tutto senza l’uso diretto della forza che comporti anche minime perdite americane”. Se non fraintendo, qui si dicono diverse cose. Che “la sopravvivenza del suo Paese”, l’Ucraina, dipende dagli Stati Uniti: è vero, anche se vi si vorrebbe aggiungere un “soprattutto”, per non relegare all’irrilevanza piena il contributo degli alleati. Che “la volontà americana” è di preservare la “centralità della propria onnipotenza” (un’iperbole, diciamo), e di ripudiare un eventuale proposito negoziale come una “tentazione anti egemonica”: facendo dunque di Zelensky niente di più né di meno che il docile attore della Proxy War permanente. (E che per giunta dalla Guerra per procura il sacro egoismo degli americani si garantisce di non mettere in gioco nemmeno una vita propria). 

“Gli americani”, ce ne guardi Iddio, che dai nemici ci guardiamo noi. Ma così stando le cose, davvero all’attore Zelensky, o a chi per lui, si può chiedere, “sfruttando le evidenti debolezze russe, di saper trattare i margini della vittoria”?