Profughi ucraini al confine con la Romania (Ansa) 

piccola posta

In quale delle due Ucraine eventuali faremmo crescere le nostre nipoti?

Adriano Sofri

Dobbiamo concordare sulla fortissima imperfezione del nostro modo di vita, senza tuttavia restare imprigionati dentro un relativismo senza scampo. Altrimenti non potremmo rispondere al perché non invidiamo chi vive stabilmente a Rostov sul Don, a Xian, a Minsk, a Pyongyang

Marina Ovsyannikova. Potremmo vedere la cosa con un criterio elementare: dove sceglieremmo di vivere, o più esattamente, dove preferiremmo che vivessero i nostri figli, che nascessero e crescessero le nostre nipoti? Siamo d’accordo, immagino, che nascere e vivere in Italia, in Europa, e in generale in quello che chiamiamo occidente, continui mediamente ad assicurare dei grossi privilegi. Mediamente, certo, e la media viene da colossali e oltraggiose differenze sociali, anche questo sappiamo. (A proposito, ieri, in un’intervista a un oligarca decaduto – che idee edificanti sanno comunicare gli oligarchi una volta decaduti, questo era il padrone dei cantieri navali russi, ora si arrangia a Nizza – ho letto la seguente contabilità: in Russia “lo 0,1 per cento della popolazione di 140 milioni di persone possiede il 100 per cento del potere e il 100 per cento delle risorse”). 

 

Fra i privilegi di cui tuttora godiamo uno, non il minore, per alcune e alcuni di noi il maggiore, è una relativa libertà di pensieri e parole, di credenze e miscredenze, di diritti sociali e civili, di attitudini sessuali e alimentari. I giorni che stiamo vivendo, spettatori improvvisamente ravvicinati di una guerra inaspettata, che segue un paio d’anni di una pandemia inaspettata, mostrano a quale grado di imbizzarrimento si spinga la nostra pubblica e libera conversazione. Non possiamo scommettere l’uno sull’altro, e nemmeno ciascuno con se stesso. Su un’altra cosa però siamo, sia pure con una amplissima gamma di variazioni, d’accordo: ed è la mole di ipocrisie, incoerenze, ingiustizie, prepotenze, che inficiano la nostra comune libertà rendendola appunto un privilegio. Così nella discussione pubblica è raro che si denunci sdegnosamente una violenza del resto del mondo – una Hong Kong ammanettata, una Memorial chiusa, un’adultera lapidata, tutta la sequela – senza che un’altra voce si alzi ad ammonire di qualche violenza, falsità, infamia, dei potenti della nostra società o della nostra società in solido. Condizione piuttosto paralizzante. Ora, sarebbe utile mettere in crisi la contrapposizione occidentale, sincera o interessata che sia, fra sostenitori e denigratori dell’occidente (oltretutto io personalmente ho un aguzzo rancore con il mio mondo, e fatico ogni santo giorno a mettergli la museruola). Penso che potremmo concordare sulla fortissima imperfezione del nostro modo di vita, e sulla necessità di ricordarcene ogni volta che facciamo la predica ai modi altrui, o li deridiamo. Senza tuttavia restare imprigionati dentro un relativismo senza scampo. Subito dopo infatti dobbiamo spiegarci perché preferiamo vivere qui, e che i nostri figli e le nostre nipoti eccetera.

 

Oltretutto, anche quando andiamo a vivere in qualche parte del resto del mondo, anche quando ci andiamo mossi da uno spirito solidale, altruista, fraterno, continuiamo a portarci dietro il nostro privilegio, fosse anche soltanto il biglietto di ritorno. Per arrivare a una conclusione provvisoria: questo nostro privilegio – passaporto, scuola, sanità, longevità, reddito, libertà di parole e di costumi – è solo il frutto dello svantaggio del resto del mondo, della sua povertà di educazione, di cure, di beni, e di libertà, o è anche una condizione possibile per ridurre la disuguaglianza di condizioni materiali e di libertà in casa nostra e nel resto del mondo? E’ qualcosa di cui dobbiamo solo vergognarci per il passato, per il presente e per il futuro, o può aiutarci a fare i conti col passato e a riparare alle porcherie del presente e a prenderci cura del futuro? La risposta è tutt’altro che ovvia. Può darsi davvero che noi stiamo allargando a tal punto la forbice fra la nostra proclamazione di libertà e di rispetto e la nostra pratica avidamente egoistica e spaventata, da svuotare la democrazia fino alla feccia. 

 

Questa antica e un po’ ridicola domanda – noi siamo ricchi perché gli altri sono poveri? Siamo liberi perché gli altri sono servi? – può accompagnarsi all’altra: dove preferiremmo vivere, e perché? Cioè: come mai non invidiamo chi vive stabilmente a Rostov sul Don, a Xian, a Minsk, a Pyongyang? Perché – tranne uno, ma un poeta – non saltammo mai il muro dalla parte opposta, a Berlino? La risposta alla primitiva domanda aiuta a rendere più nitida la nostra fiducia nella resistenza ucraina o la nostra speranza nella resa ucraina. Insomma, in quale delle due Ucraine eventuali – ammesso che almeno una ne resti – andremmo a stabilirci e a far crescere le nostre nipoti e le nipoti di tutti. Ci ricordiamo amaramente del giudizio di Salomone. Putin e Zelensky non sono due madri (erano due prostitute, del resto), e l’Ucraina non è un neonato, benché sia disputata mortalmente. E il re e giudice salomonico non c’è, tutt’al più una rudimentale Corte penale. Ma noi, che cosa diciamo nel momento in cui la spada sta calando?

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