Julian Assange (Ansa) 

piccola posta

Ripensare al caso Assange dopo il ritiro dall'Afghanistan

Adriano Sofri

A prescindere dalle posizioni politiche, nel caso Wikileaks si sono rese pubbliche montagne di crimini di guerra e falsità propagandistiche. Gli Stati Uniti non hanno mai negato, e la loro accusa al fondatore suona irrisoria e offensiva

Ho visto la puntata di Presa diretta di lunedì dedicata a “Julian Assange. Processo al giornalismo” e ne sono stato violentemente impressionato. Avevo il torto di non essermi informato abbastanza sulla sequela di Wikileaks e sulla figura di Assange, e così ho avuto il vantaggio di guardare in modo ingenuo, per dire così, e scandalizzato. Avevo appena scorso le anticipazioni del libro di Stefania Maurizi, Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks (prefazione di Ken Loach, 400 pp., Chiarelettere), sulla cui falsariga Riccardo Iacona e il suo gruppo hanno costruito il programma.

 

Sono giorni in cui ciascuno di noi, e non solo gli stati e la Nato e simili potenze, deve fare i conti con quello che ha pensato scritto e detto sull’Afghanistan da vent’anni a questa parte, e frugare in fondo alle tasche in cerca di qualche spicciolo rimasto. Stavo cercando dati affidabili sulle vittime, morti e feriti, degli ultimi quarant’anni di guerra ininterrotta, dal 1979 dell’invasione dell’Urss, ricerca non facile: il volume ultimo curato da Emanuele Giordana, La grande illusione, mi aveva rinviato a quello di Vasja Badali, The War against Civilians, 2019, limitato alla “Guerra al terrore”. Prezioso per i simmetrici comportamenti illegali e criminali di tutte le parti in conflitto, insufficiente al calcolo complessivo delle perdite e alla distinzione su autori, vittime e modi di colpire. Gli stessi calcoli dell’agenzia Onu, l’Unama, sono approssimati. Dal 2001 al 2018, per Badalič, il totale dei morti, civili e combattenti, fu di 212 mila, di cui 147 mila in Afghanistan e 65 mila in Pakistan. I civili furono 34.700 in Afghanistan e 23.300 in Pakistan. Secondo l’Afghanistan Human Rights and Democracy Organization, fra il 1978 (colpo di stato comunista) e la fine del 2001, “il numero dei morti può essere stimato nell’ordine dei due milioni” (ci tornerò).

 

Il famoso “Collateral Murder” iracheno, l’errore micidiale che lo guida, l’entusiasmo ebbro degli esecutori, osservatori e piloti del drone, il raddoppio del crimine nel “secondo colpo”, la falsificazione della versione ufficiale, sono terribili da leggere, insopportabili da guardare. La trasmissione era ricca di cose insopportabili da guardare: gli ignobili filmati segreti dello sgabuzzino di Assange nell’ambasciata dell’Ecuador, l’impudenza della vice procuratrice americana incaricata di perseguirlo, le testimonianze dell’ex presidente Correa e dello Special Rapporteur Onu sulla tortura Nils Melzer (anche lui autore di un libro sul “caso Assange”). E l’intervista conclusiva con un Gino Strada stremato e fedele a se stesso. 

 

Il caso Assange, qualunque posizione politica si scelga di prendere, è quello di una persona e di alcune altre con lui che hanno reso pubbliche montagne di documenti di crimini di guerra e falsità propagandistiche di Stati Uniti e altri governi occidentali, oltre che di loro nemici. Alla cui rivelazione gli Stati Uniti hanno reagito non negandone la autenticità, ma accusando Assange di aver così messo in pericolo l’incolumità di membri delle loro forze. L’accusa non si è procurata alcuna prova, ma suonerebbe comunque irrisoria e offensiva di fronte alla realtà che quei documenti raccontano. Penso che gli spettatori di lunedì sera abbiano reagito come me alla puntata di Presa diretta. E’ possibile che un certo numero fra loro ne sia stato disposto, ammesso che non fosse già predisposto, ad assistere fra poco alle rievocazioni dell’11 settembre secondo il complotto della Cia e del Mossad, eventualità cui si prestano già le mobilitazioni No green pass. Peccato: ma sarebbe davvero, questa volta, solo un danno collaterale, inetto a scalfire la verità.

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