Antonio Pennacchi (LaPresse) 

piccola posta

Antipatia per "Il fasciocomunista", ma Pennacchi si legge come Guareschi

Adriano Sofri

No alla tesi sulla coincidenza generazionale fra rossi e neri all’origine del ’68. Ma lo scrittore era, una volta che lo si vedesse in faccia, simpatico senza riserve. Come quell'antefatto, non travolto dalle macchinazioni della storia pubblica

È bambino, nel collegio dei missionari vincenziani, andrà in Congo, oppure a Molokai, ma ecco che non vuole più diventare prete. La mamma: “Se proprio deve tornare, ritorni e basta”. Padre Cavalli (che prima era avvocato, e pure fidanzato) lo esorta a pensarci meglio, chiedere consiglio al Signore, lui si è stufato. “Io mi sono commosso. E pure lui. Il mondo m’aspettava. Secondo me”. “E io tornavo a casa felice e contento”. A casa però stanno stretti. Sette: quattro femmine e tre maschi. Chi glielo aveva fatto fare a mio padre? Mussolini e la Madonna, gliel’avevano fatto fare. La madre è andata a trovare padre Pio, al sesto mese, sobbalzava sul pianale, 300 chilometri all’andata e 300 al ritorno: così ha abortito di aborto naturale, padre Pio ci ha fatto la grazia. Se no eravamo otto. 

Non lo salutano nemmeno. Il fratello maggiore Manrico è il cocco di mamma. La sua rovina. Manrico in collegio a Siena, lui a Zagarolo. Gli piace il latino. Lo chiamano Cicerone, per il latino e perché sembra un avvocato. Povertà castità e obbedienza, l’obbedienza è al primo posto. Chi sta con Ettore, i più, chi con Achille. Chi con Ulisse, lui con Diomede. Ha orrore del diavolo comunista. Prega: fammi morire, ma converti Krusciov.  Diventa un metro e ottantaquattro, ma sessantatré chili e mezzo. Pennacchi scrive sempre le cifre in lettere. È solo, triste. Mette su quaranta volte Sergio Endrigo, C’è gente che ha avuto mille cose. Una volta va a Nettuno, a cercare un amico, non c’è e va fino a Anzio, a piedi, si fa ora di rientrare ma non ha voglia, pensa di procedere in autostop fino a Genova, basta seguire la costa, e poi salpare per l’America – ha 14 anni, nemmeno. Lo riporta la polizia.

Si fa la nomea di uno che mena. Prima o poi bisogna che meni davvero. Va in palestra. Però è studente, i veri boxeur sono operai. Si allena Mazzinghi, ogni tanto gli dice: Ciao. Fa il palo alla Standa, se fosse sicuro che non lo prendono, continuerebbe a rubare tutta la vita. Una supplente stronza lo boccia in italiano, quella di prima gli faceva scrivere i racconti e voleva pubblicarglieli, ed era anche bionda, giunonica. A lui Scienza delle costruzioni piace quasi quanto Italiano. È la misura. L’Inferno di Dante: non una sillaba in più. Il Paradiso è sovradimensionato. 

Il mito era il ’56, le botte con la polizia per l’Ungheria. Finché arriva il 1965, Moro e Trieste e la zona B, ha quindici anni, inventa gli scioperi a scuola. A Roma, incontrerà i capi neri veri, le cose pesanti. Picchiatori, caporioni che disertano la prima linea, Pajetta che li affronta, muore Paolo Rossi. C’è Delle Chiaie, gli sembra una persona squisita, poi va’ a sapere. Spera di andare in galera, almeno un passaggio. Intanto s’era fatto il 1968. Poi si farà il dicembre ’69. Sono nati a Littoria, mica a Marzabotto. Se erano nati a Marzabotto era tutta un’altra storia.

Antonio Pennacchi era, una volta che lo si vedesse in faccia, simpatico senza riserve. Cominciai a leggere “Il fasciocomunista” con antipatia: non mi piaceva la tesi sulla coincidenza generazionale fra rossi e neri irregolari all’origine del ’68, mi ripugnava la parola “nazimaoista”, l’impostura epica su Valle Giulia. Continua a non piacermi e a sembrarmi falsa. Nel romanzo autobiografico Accio Benassi prende tutti i vicoli ciechi del biennio 1968-69 fino alla catastrofe: se non irreparabilmente la propria, quella fraterna e dei suoi compagni stretti di ogni sponda. Ma c’è quell’antefatto, un’infanzia e un’adolescenza insieme aperte e predestinate, che si leggono come un Guareschi, sarà per la Bassa e il Canale, non travolte ancora dalla macchinazione della storia pubblica. 

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