Marcia per l'Amnistia organizzata dal Partito Radicale, Roma 2017 (LaPresse)  

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Il pericolo di una "giustizia di transizione" che diventa permanente

Adriano Sofri

I cambiamenti rapidi e radicali a cui andiamo incontro tutti i giorni devono essere governati. Ma la classe politica e giudiziaria in Italia non sembra essere all'altezza in questo momento

Pannella, chi gli rinfacciasse di essere disposto a fare un patto col diavolo, si sarebbe offeso: “Il diavolo sono io”. Matteo Salvini non è il diavolo, almeno non il diavolo in capo, ma è per il momento un tipo che dice: “marcire in galera” e che corre a farsi il selfie con gli agenti penitenziari accusati di torture. D’altra parte, iniziative strampalate – che il cielo le accompagni, del resto – non possono che fiorire nel momento in cui i pensieri forti si sono dimessi e il discredito simultaneo della classe politica e della classe giudiziaria ha spalancato le porte agli incursori. Anche la lettera di Di Maio piove da questo cielo. Anche Amara e Palamara. La concorrenza fra una riforma della giustizia nelle mani di Cartabia e Lattanzi, legate da giganti del diritto come Bonafede e Travaglio e dalla bava alla bocca del loggione, e la via referendaria imboccata estemporaneamente e, vorranno ben ammetterlo, strumentalmente, da Lega e radicali, porteranno chissà dove.

 

E’ invalsa una formula, la “giustizia di transizione”, a definire il modo in cui un cambio di regime prova a chiudere i conti col passato. Ho appena letto un libro di Paolo Caroli che vi si dedica, a partire dall’episodio inaugurale dell’Italia repubblicana (“Il potere di non punire. Uno studio sull’amnistia Togliatti”, Esi, 2020). L’amnistia di Togliatti era decretata a ridosso di una tirannide ventennale, della persecuzione razzista, di una catastrofica guerra mondiale e di una feroce guerra civile. Ma il governo della transizione è anche il punto di svolgimenti successivi, pur se avvenuti senza, o quasi, un conflitto armato, e senza demolire la democrazia, e tuttavia segnati da crisi profonde e “sistematiche”, come quella che prese il nome di Tangentopoli. 

 

Nel ’46, la classe politica fu abbastanza forte da decidere per l’amnistia – il potere di non punire – anche se lasciò poi mano libera alla magistratura largamente fascista per l’attuazione; nei 90 la classe politica non esistette – se non in quella chiamata di correo di Craxi, che fece ammutolire tutti ma non indusse nessuno a prendere un’iniziativa – e tutto passò in mano alle Procure. Ma la stessa cosa era già avvenuta nella lotta al terrorismo e in quella alla mafia. E sui due versanti, quello dello stato e quello della società, i fenomeni diversi, gli anni delle stragi e della lotta armata, delle mafie, e della corruzione politica e civile, si erano mescolati e sommati.

 

Il tempo è traditore. Il libro di Caroli finisce quando sembra soverchiante la crisi di legittimazione del potere politico, e lo leggo quando straripa la crisi di legittimazione dell’ordine giudiziario. La situazione italiana di oggi è vicina a una ironica chiusura del cerchio.

 

D’altra parte il paradosso sta nelle cose. Nella velocità che hanno preso i mutamenti e nella longevità degli umani. La contraddizione fra l’uomo “arcaico” e la quantità e radicalità dei cambiamenti cui assiste e cui si adatta rende sovreccitato ogni periodo. La giustizia di transizione si propone di assecondare la trasformazione nell’ordine – dunque non è né una rivoluzione né una restaurazione, e vuole sventare l’una e l’altra. Ma il MeToo è un mutamento che esige una giustizia di transizione, il Black Lives Matter lo è… E la cancel culture? L’esperienza planetaria della pandemia lo è clamorosamente – a meno che si pensi a un puro e semplice ritorno allo status quo ante. Il cambiamento climatico lo è. La fine del mondo – lo è.

 

Si deve immaginare una specie di giustizia di transizione permanente? Un calendario in cui ogni giorno diventi un giorno della memoria? (Del resto, ci siamo).

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