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piccola posta

Come spiegare ai propri figli che alcuni loro amici nati in Italia sono stranieri

Adriano Sofri

Lo so che non è una priorità, e che i paragoni con gli anni Trenta non reggono. Ma un giorno, quando tutta questa meschinità sarà passata, sarà interessante avere una documentazione su questi tempi

Vediamo. Io sono una madre, o un padre, di un bambino, o una bambina (o una ragazza, o un ragazzo, vale almeno fino ai 18 anni) che torna a casa da scuola e mi racconta che il suo compagno di classe o la sua compagna di banco sostiene che a lei o a lui è vietato avere la cittadinanza italiana. Dunque mia figlia, mio figlio, torna a casa e mi chiede: “Perché?”. Sto immaginando di essere un padre, o una madre, di quelli che si credono e si proclamano contrari al riconoscimento della cittadinanza a un bambino nato in Italia, che parla italiano, che è uno scolaro italiano. Come rispondo? Vediamo, appunto. Magari me la cavo “obiettivamente”, per così dire: rispondo che c’è una legge, che la legge dispone che i figli di stranieri, anche se sono nati in Italia o ci sono venuti da piccolissimi, possano chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto i diciotto anni… Però si sa come sono i bambini, le bambine. È probabile che non ne abbiano abbastanza, che tornino a domandare: “Ma perché?”. Oppure: “Ma è giusto?” (ai bambini importa se una cosa è giusta o no). Allora io, padre o madre…

Qui si ferma la mia immaginazione, davvero, e darei una fortuna per ascoltare la risposta di quei genitori, di cui si pretende per giunta che siano la maggioranza. Rispondono forse: sono cose che capirai quando sarai grande? Ma su! Dopotutto la gente ama, se non i bambini, i propri bambini. E vorrà dire loro: “Abbi pazienza, quando sarai abbastanza grande potrai condividere idee disgustose come le nostre”? Forse proveranno ad argomentare? “Quei bambini sono diversi… Quei bambini forse metteranno le bombe… Quei bambini non sanno bene l’italiano…”. Ma è una strada temeraria: i figli protesteranno che sono fesserie, che non è vero – oppure, peggio, staranno zitti e terranno per sé la scoperta che i genitori mentono e dicono fesserie. Forse non guardo abbastanza i talk-show. Se voi siete più assidui, avete sentito domandare ai rumorosi nemici dello ius soli o dello ius culturae o quello che sia, come spiegano ai loro bambini, alle loro bambine, perché i loro compagni, eccetera? Con che parole, con che argomenti? E le maestre e i maestri, e gli insegnanti e le insegnanti, come lo spiegano ai loro allievi cittadini e a quelli non cittadini?

Mi assilla questo dettaglio da quando, tardi, chissà perché, mi arrovello attorno alla scarsissima conoscenza che abbiamo su che cosa abbiano detto nel 1938 e seguenti i genitori “ariani” ai figli che avevano visto scomparire improvvisamente le loro compagne, i loro compagni, e a volte le loro maestre, i loro maestri, i loro professori. Abbiamo finalmente raccolto i racconti dei bambini e dei ragazzi cacciati, del modo in cui maestri e professori e presidi gliel’avevano comunicato, o nemmeno; del modo improvviso in cui i coetanei e compagni del giorno prima voltavano la testa quando li incrociavano. Ma la nostra formidabile storia orale ha tardato, forse irreparabilmente, a raccogliere le testimonianze dei genitori italiani e dei maestri italiani che avevano addestrato i loro bambini e i loro ragazzi a voltare la testa dall’altra parte quando avessero incrociato i compagni spariti, o a non chiedere dove fossero finite alcune maestre, qualche professore. Un giorno, quando fossero diventati abbastanza grandi, avrebbero capito… Anche per questo non hanno mai capito davvero, non abbiamo. Un intero popolo cui successe di essere adulto e genitore e docente e professionista in quel precipitoso volgere di anni addestrò i propri bambini a voltare la testa e voltò la testa all’incontro dei propri compagni ebrei, dei propri colleghi ebrei, quando non preferì guardarli e insultarli e sghignazzare. 

Lo so che i bambini che vivono in Italia da stranieri almeno fino ai 18 anni non sono espulsi dalle scuole e tanto meno braccati e deportati in qualche luogo di annientamento. Non c’è paragone, davvero. Guai a perdere il senso delle proporzioni, che farebbe comodo ai negazionisti. Non è una priorità, ci mancherebbe. Che cosa volete che sia, un timbro su una carta d’identità e poco più. Tuttavia un giorno, quando tutta questa meschinità sarà passata, sarà interessante avere una documentazione su che cosa dicevano i genitori ai loro figli per spiegare che i loro compagni di banco, nati in Italia come loro, nello stesso anno loro, non potevano essere italiani, e che era giusto così. Se ci capita, chiediamoglielo. 

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