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“L'oceano non vale la Senna”, Léo Ferré e la nave che è Notre-Dame

Adriano Sofri

Spaccare pietre, costruire cattedrali. Un apologo e una canzone

A Charles Péguy in cammino verso Chartres (con Alain Fournier, il grande amico), ricordato ieri da Maurizio Crippa – “Ecco il luogo del mondo dove tutto diviene facile” – è attribuito anche il famoso apologo sui tre incontri. Nell’ora più calda, il pellegrino incontra ai bordi della strada un uomo che spacca le pietre. Stupito, gli chiede: “Ehi amico, che cosa fai?” Lui, scontroso: “Non vedi, straniero? Spacco pietre”. “Ma fa un gran caldo, è una vera sofferenza, perché lo fai?”. “Che altro posso fare? Devo pur mangiare”. E si rimette all’opera, con un’alzata di spalle. Un poco oltre il viandante si imbatte in un altro uomo, che anche lui spacca le pietre. “Ehi amico, che fai?” Lui alza la testa e risponde: “Non vedi, straniero? Spacco le pietre”. “Ma fa così caldo. E’ una sofferenza, dunque perché lo fai?”. “E’ vero, si soffre a fare questo lavoro, ma queste pietre mi permettono di mantenere la famiglia, ed è questo che conta, no?”. E si rimette al lavoro. Ancora un po’ oltre, e il viaggiatore incontra un terzo uomo che spacca le pietre. “Ehi amico, perché spacchi pietre con questo caldo?”. L’uomo tira su la testa, si sofferma per un momento, gli fa un cenno del capo e riprende il lavoro. Il viandante ripete più forte: “Ehi amico, rispondi: perché spacchi pietre con questo caldo?”. “Scusami, straniero, credevo di non aver sentito bene. Io non spacco pietre: io costruisco cattedrali!” E si rimette all’opera.

 

Bell’apologo. Truffaldino, può insinuare qualcuno: un modo di sublimare una fatica bestiale. Non direi. La domanda di Brecht sulle piramidi d’Egitto, chi le costruì, vale meglio per le cattedrali e le generazioni di manovali, carpentieri maestri d’ascia e di pialla, edili, vetrai, falegnami, scultori e scalpellini che le costruirono. Da liceale lessi uno svelto libro di Jean Gimpel, Les batisseurs de cathédrales, non me lo ricordo più se non perché mostrava una convivenza e una continuità fra romanico e gotico. Io avevo capito, come si impara, che il romanico tenesse i piedi per terra e il gotico desse l’assalto al cielo, e che fossero due modi così alternativi da esigere che si scegliesse per l’uno o per l’altro, come, alla stessa età, fra Tolstoj e Dostoevskij. Mi sentii autorizzato per quella volta a non schierarmi.

 

  

Di Notre-Dame amo specialmente il retro, l’esterno dell’abside con l’avventura dei contrafforti e degli archi rampanti, che mi sembrano avere un’aria marinara, e lunedì notte ho temuto soprattutto per il loro naufragio. Léo Ferré cantava l’Ile Saint-Louis stufa di starsene accanto alla Cité, e benché “quando si è isola si resta tranquilli nel cuore della città”, un giorno mollò gli ormeggi e navigò di qua e di là. Ma “L’île Saint-Louis a de la peine / Du pôle Sud au pôle Nord / L’océan ne vaut pas la Seine / Le large ne vaut pas le port / Si l’on a trop de vague à l’âme / Mourir un peu n’est pas partir / Quand on est île à Notre Dame / On prend le temps de réfléchir / Quand on est île / On reste tranquille / Au coeur de la ville / Moi je vous le dis / Pour les îles sages / Point de grands voyages / Les livres d’images / Se font à Paris”. L’oceano non vale la Senna. E’ restata là, l’isola e la cattedrale.

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