Mao Tse-Tung

La sinistra e il voto del centro cittadino che è tutt'altro che increscioso

Adriano Sofri

Le parti sociali “privilegiate” e lo scollamento con le campagne

A ogni nuova elezione si ratifica il conflitto irriducibile fra città e campagna, ora esemplarmente ribadito dal risultato turco. La “campagna” garantisce ancora una buona maggioranza – nel caso turco autoritaria, nazionalista, islamista, aspirante sultanista – e le città rivendicano la propria aria libera.

 

Almeno dall’aggiustamento maoista del marxismo, la campagna era diventata sinonimo del proletariato e la città pseudonimo della borghesia. Mao ebbe dalla sua una lunga ed epica rivoluzione fondata sull’accerchiamento della città da parte della campagna. E aveva alle spalle un’antica tradizione sulla guerra di popolo radicata negli impervi rifugi naturali, e così sarebbe stato della guerra partigiana che dalla montagna scende alle città liberate. Difficile distaccarsi da metafore così affettuose, anche dopo l’esperienza raccapricciante del genocidio cambogiano, quando i khmer rossi vollero strappare gli occhiali da vista alle persone e deportarle dalla città corruttrice. Vennero altre prove: a Sarajevo si coniò il termine di urbicidio.

 

Mi scuso della sommarietà di questa ricapitolazione, mi serve qui solo per un’osservazione scandalosa che sembra sfuggire a tutti: che questa rivendicazione delle città contro la desertificazione della democrazia populista ha un suo capitolo peculiare nel deprecato voto nostrano alla sinistra – chiamiamola così – nei centri cittadini e nei quartieri ufficialmente alti, e nel corredato lamento sulle periferie perdute. Il voto del centro cittadino è tutt’altro che increscioso a priori, è al contrario un’ambivalente raffigurazione dell’attuale composizione e coscienza “di classe”. Quel voto non è qualcosa di cui vergognarsi, se non nel modo di metterlo a frutto, e nel modo in cui prima ancora che le forze politiche si comportino le parti sociali “privilegiate”: fra i cui privilegi oggi c’è anche l’affezione alla democrazia, che viene sofferta sempre più come un lusso invece che come l’apriori comune della convivenza civile. Una prospettiva come questa, un paziente capovolgimento del cannocchiale, mi sembra inevitabile alla discussione sulle élite, alle quali andrebbe restituita nella pratica sociale e personale il connotato positivo annichilito carnevalescamente dal cosiddetto “cambiamento” ormai annoso.

 

Il privilegio di stato economico e culturale e anche logistico ha una doppia natura, o può averla: per un verso è avidamente innamorato di sé e autore e fautore della propria dismisura, per un altro è, o può essere, fautore di una difesa della democrazia trasformata dai ricchissimi e dai demagoghi in un lusso superfluo. Questo è un mio indice preliminare sulla situazione attuale e i nostri compiti. (Con un’avvertenza: vivo in campagna e non ho una lira).

Di più su questi argomenti: