Una delle vittime del disastro di Mosul (foto LaPresse)

Il cortocircuito del destino, da Christchurch a Mosul

Adriano Sofri

Una famiglia scappata dalla Siria massacrata in Nuova Zelanda, più di cento morti affogati in Iraq

La nostra civiltà e soprattutto la nostra letteratura non sarebbe esistita senza l’idea di destino. Ce ne siamo via via allontanati con il povero surrogato dei disegni della provvidenza, o col gusto curioso e un po’ superstizioso per le coincidenze. L’islam dipende più fortemente dal fatalismo della imperscrutabile volontà di Allah. Poiché il destino è un corto circuito fra l’inizio e la fine e riconosce l’una nell’altro, la cronaca si premura di fornire esempi impressionanti. Nella strage di Christchurch sono morti un padre, Khaled Mustafa, 44 anni, e il suo figlio sedicenne, Hamza: il fratello di 13 anni, Zaid, è stato ferito ed è sopravvissuto. Padre e figli, la loro madre, Salwa, e una sorellina di dieci anni, avevano finalmente trovato riparo in Nuova Zelanda a luglio. Erano fuggiti dalla Siria in Giordania nella speranza di andare negli Stati Uniti, e il bando di Trump li aveva dirottati sulla destinazione neozelandese, “la più sicura del mondo”. A Mosul, giovedì scorso, un traghetto portava attraverso il Tigri una comitiva di famiglie, soprattutto donne e bambini, alla volta di un isolotto con un improvvisato parco dei divertimenti. Il traghetto era stracarico e il fiume era in piena: è affondato e più di cento persone sono morte annegate, altre decine sono ancora disperse. A Mosul, per festeggiare il Nowruz, in un parco dei divertimenti.

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