Una foto di Verona (via Pixabay)

Quando l'accoglienza è un affare

Adriano Sofri

Benyamin Somay è un rifugiato politico curdo-iraniano. All’età di trent’anni, ha già un curriculum che rende complicato scegliergli una qualifica

Benyamin Somay, all’età di trent’anni, ha già un curriculum che rende complicato scegliergli una qualifica. E’ un gelataio a Verona, per la benemerita, oltre che squisita, gelateria artigianale “E’ Buono”, via Santo Stefano: ho assaggiato la sua nocciola tonda piemontese e contemplato le altre vaschette, parlo per esperienza. Questo lavoro impegna le sue mattine, dalle 7 alle 14. E’ uno studente, studia lingue, e ne conosce già parecchie, e materie che hanno a che fare col turismo. Lo studio lo impegna dal primo pomeriggio fino a sera inoltrata. E’ un curdo-iraniano, da sette anni rifugiato politico in Italia perché gravemente minacciato a casa sua. E’ un raccontatore dell’odissea che lo ha portato fin qui – Turchia, Grecia, Puglia, Danimarca, Isola d’Elba, Grecia, Puglia, Verona –, delle sofferenze e dei perigli estremi che ha attraversato e della generosità disinteressata che ha trovato più volte. E’ uno scrittore di tutto questo, l’infanzia in un villaggio di pastori e poi la fuga e l’esilio. Il suo libro si chiama “Il vento ha scritto la mia storia” (Edizioni la Meridiana): non dirò che si legge tutto d’un fiato, certo sembra scritto tutto d’un fiato, in una specie di apnea, da uno che si sente inseguito da qualcosa di cattivo e che a sua volta insegue qualcosa di buono che sa lui. E’ un panettiere provetto, imparò da piccolo nel forno domestico alle cui pareti sua madre incollava ed estraeva i pani rotondi uscendone ustionata e sfinita, poi lavorando in proprio e infine in Italia. Le persone gli vogliono specialmente bene. L’Italia ha fatto un affare accogliendolo, benché abbia tirato molto e a lungo sul prezzo.

  

Giovedì sera a Verona abbiamo parlato dei curdi lui e io, nella sede dei padri comboniani, per iniziativa di Mao Valpiana, del movimento nonviolento, e con l’accompagnamento del Nardo Trio, musicisti che per l’occasione si sono fatti curdi. Mi sono dimenticato di dire che in qualunque punto del Kurdistan c’è un odore di pane tondo appena infornato: ne chiedete uno e si mettono a ridere e ve ne regalano due, inflessibilmente. C’era parecchia gente, piuttosto al corrente delle cose del mondo. Voglio dire che uno che avesse trascorso una giornata così, come me, col Pisanello di Sant’Anastasia nell’attesa, poi ad andare di qua e di là dell’Adige, fiume quasi sacro alla patria, poi a cercare tracce di Giacomo Bove e di Emilio Salgari, poi a comprare libri di montagna a prezzo di mutuo soccorso da Cristiano Bordin, poi a bere un’acqua minerale all’Osteria Sottoriva e un’altra all’Osteria dai Preti, poi a parlare e cantare curdo in casa di quei cordiali e sapienti padri comboniani, se ne andrebbe con un’idea bellissima di Verona. E qualunque obiezione facciate, non intendo cambiare idea.

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