Che fine aveva fatto l'amico carissimo nel lungo e spezzato resto di vita

Adriano Sofri

Il Circolo degli occhi dolci perde il suo ultimo fondatore. Addio a Gabriele Giunchi

"I nostri morti" è un’espressione piena di affetto e insieme invadente, come un’appropriazione indebita. Affettuosa come una compresenza, la continuazione di qualcosa che ha costituito la parte intima della nostra vita; e indiscreta come la proiezione di un tratto della vita altrui che abbiamo condiviso e che facciamo prevalere nel ricordo. Così è nei necrologi, che si ingegnano di dire l’essenziale. Di recente avevo riletto il libro di Enrico Deaglio, “Patria”, il “prequel”, quello che va dal 1967 al 1977. Lo zibaldone di Deaglio ha anche il merito di pubblicare elenchi di nomi. Non so, i protagonisti dell’occupazione di Palazzo Campana secondo gli avvisi di reato, i protagonisti operai delle lotte del ‘69 a Mirafiori… Leggendo quegli elenchi è inevitabile fare il conto fra i vivi e quelli che non ci sono più, e il conto pende dalla parte dei secondi.

 

Ho smesso dunque da tempo di scrivere necrologi, perché “i nostri morti” sono sempre più numerosi, e perché diffido di quello che consideriamo essenziale. In contrasto, le cose che succedono nella nostra vita pubblica, tali da prendere una parte davvero essenziale anche delle nostre vite private, rendono via via più intenso il confronto con chi non c’è più, chi non ha visto né immaginato una parte del cammino e che proprio per questo è l’interlocutrice o l’interlocutore urgente dei nostri pensieri. Succede di dialogare, se posso usare questo verbo, sempre più accoratamente coi nostri morti e di restare in silenzio fra noi, un po’ per stanchezza, un po’ per la fiducia che le parole siano superflue.

 

Faccio un’eccezione oggi per un nostro compagno e amico carissimo, Gabriele Giunchi, che è morto tragicamente durante un’escursione nelle Dolomiti bellunesi. Aveva 68 anni – si scherzava sul destino dei sessantottini, di diventare sessantottenni. Era fra i nostri di allora giovane per eccellenza, d’aspetto e di temperamento e di sentimenti. Aveva fatto in tempo a impegnarsi “per la dignità dei soldati di leva”, fra i Pid, i “Proletari in divisa”, fino a guadagnarsi ripetuti arresti e la famigerata fortezza di Gaeta, che chiudevano e tormentavano gli obiettori di coscienza e gli antimilitaristi. Su un quotidiano nei giorni scorsi un articolo di repertorio si intitolava “Ecco che fine hanno fatto tutti i leader di quella stagione”. Naturalmente non intendeva che fossero fisicamente finiti, e forse l’articolista non era nemmeno malintenzionato. Capita a tutti di incontrarsi, abbracciarsi e dirsi allegramente: “Che fine hai fatto?” In questo caso l’idea era piuttosto che il resto della vita di quelle persone, “quelli del Sessantotto”, cioè le loro vite, fosse appunto un resto, come un aver preso una gonfia cresta d’onda ed esserne poi stati depositati per sempre su una riva – spiaggiati. Ho voglia di riferire “che fine aveva fatto” Gabriele Giunchi, non sul canalone di montagna da cui è precipitato mentre sua moglie e i suoi figli lo aspettavano a valle, ma in quel lungo e spezzato resto di vita. Lo faccio copiando le parole asciutte e anonime di un sito bolognese, “Zeroincondotta”, eccole: “Gabriele non mancava mai l’11 marzo, davanti alla lapide di Francesco Lorusso in via Mascarella. Sempre sorridente, abbracciava tutti. Non spingeva per mettersi in mostra, c’era. Era dei suoi amici più stretti, fu lui a tenere tra le braccia Francesco, colpito a morte dalle pallottole sparate da un carabiniere l’11 marzo del ‘77, proprio di fronte alla libreria ‘Il Picchio’. Gabriele era venuto a Bologna con Lotta Continua, ne era stato uno dei militanti più attivi. Quando il giornale si era trasformato in quotidiano aveva lavorato nella sua redazione. Poi, dopo lo scioglimento, nella seconda metà degli anni settanta, si buttò a tempo pieno con la sua creatività, con la sua intelligenza e con il suo corpo nel neonato movimento. Quando il movimento si affievolì, lui assieme a Franco Morpurgo e a Gabriele Baldini fondò il Circolo degli Occhi Dolci. Di loro tre non resta più nessuno.

 

Organizzarono iniziative di un certo clamore, trattavano di cose molto serie divertendosi un sacco. E ci fu ‘Il Collinone degli Occhi Dolci’ sui colli a Paderno: polleggio, musica diffusa, meditazione, osservazioni del cielo stellato. Poi venne il corso di Lingua Napoletana, con ripetuti pienoni delle aule universitarie che ne furono sede: era il modo più originale per contrastare fenomeni di razzismo che si cominciavano a vedere, allora nei confronti dei meridionali. E arrivarono anche le serenate per le innamorate e per gli innamorati e la manifestazione delle galline e delle oche in via Indipendenza per la chiusura della strada al traffico di auto. Gabriele intanto faceva il bidello alle scuole Longhena, quelle diventate famose per le lotte a difesa della scuola pubblica e della sua qualità. Lo chiamavano ‘Dado Gabriele’ i bimbi che con lui si divertivano molto, perché ci sapeva fare nell’intrattenere grandi e piccini. Dalle elementari si trasferì poi al Museo archeologico, bigliettaio e custode, dava informazioni sulle collezioni permanenti e sulle mostre, con tutta la maestria che anni di attivismo sociale e culturale gli avevano regalato. In museo rimase fino alla pensione che aveva festeggiato un po’ di tempo fa. A Casalecchio, dove abitava, aveva organizzato con gli altri genitori i turni per l’apertura di un parco”. Ho trovato anche un “Autoprofilo” di Gabriele, di 14 anni fa: “Mi chiamo Gabriele Giunchi, ho 52 anni, sono romagnolo d’origine. Sono cresciuto nella militanza politica dell’ estrema sinistra, con passione e fiducia. Tramontato l’orizzonte degli ideali, ho mantenuto la voglia di insistere a vivere la vita pienamente. Nel 1982 ho dato vita con Franco Morpurgo e Gabriele Baldini al Circolo degli Occhi Dolci. Abbiamo giocato con la città per cinque anni. Poi mi sono occupato d’altro. Ho imparato a suonare il violino e ho letto finalmente la buona letteratura. Ho fondato un’associazione interetnica. Sono diventato genitore. Mi occupo di scuola, politica, cultura, associazionismo, filosofia, ecc. Più avanti vedrò…”. A Michele Smargiassi, che lo intervistava per Repubblica, dieci anni fa aveva detto: “Sono un avanzato; come il pane di ieri, ma anche nel senso che sono andato avanti”.

 

Cose così, insomma. Aveva fatto questa fine, l’uomo dagli occhi dolci.

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